LA GERARCHIA DELLE SFORTUNE
Essere migrante nella fortezza Europa e nell’Italia dei vari “pacchetti sicurezza” già di per sé non è una buona sorte. Se poi il colore della pelle non consente di celare la propria “extracomunitarietà” il minimo che possa capitare è di essere fermati con una certa frequenza per controlli dei documenti e/o possesso del biglietto dei mezzi di trasporto, oppure essere guardati con diffidenza o scostati per evitare contatto, o peggio venire esclusi da posti di lavoro o stipule di contratti di affitto.
Se poi sei migrante e irregolare, la sorte può essere insopportabile. La diffidenza e la discriminazione diventa istituzionalizzata perché avvallata dalla legge. I controlli di polizia possono comportare la contestazione dell’odioso quanto inutile reato di clandestinità, la notifica del decreto di espulsione e, se proprio butta male, il trattenimento fino a 18 mesi in uno dei 6 Cie ancora rimasti aperti.
Se poi sei migrante e donna le sfortune si mescolano e si accumulano.
Se sei rom, se sei velata o comunque troppo palesemente straniera, accedere a un posto di lavoro può diventare impossibile e chiedere giustizia è spesso inutile.
Se sei irregolare la legge non solo non ti difende dai soprusi e dalle discriminazioni ma ti condanna perché colpevole di esistere e respirare sans papier.
Rischi, quando il datore di lavoro ti molesta, quando il “nonno” al quale fai da badante, infermiera e figlia, non più troppo lucido, ti prende a bastonate, quando ti viene negato il giorno di riposo e la maternità, di non ottenere mai giustizia. Perché la voce di una donna irregolare o viene filtrata e amplificata da sindacati o avvocati o raramente viene ascoltata.
E se è vero che recenti normative dovrebbero proteggere gli irregolari dallo sfruttamento sul lavoro e le donne dai maltrattamenti è altrettanto reale ad oggi la loro difficile applicazione e scarsa efficacia.
E cosi se sulla carta (costituzionale in primis) anche le irregolari sono soggette di diritto, in concreto restano spesso sempre e solo “clandestine” da condannare piuttosto che tutelare.
Se poi sei migrante e irregolare, la sorte può essere insopportabile. La diffidenza e la discriminazione diventa istituzionalizzata perché avvallata dalla legge. I controlli di polizia possono comportare la contestazione dell’odioso quanto inutile reato di clandestinità, la notifica del decreto di espulsione e, se proprio butta male, il trattenimento fino a 18 mesi in uno dei 6 Cie ancora rimasti aperti.
Se poi sei migrante e donna le sfortune si mescolano e si accumulano.
Se sei rom, se sei velata o comunque troppo palesemente straniera, accedere a un posto di lavoro può diventare impossibile e chiedere giustizia è spesso inutile.
Se sei irregolare la legge non solo non ti difende dai soprusi e dalle discriminazioni ma ti condanna perché colpevole di esistere e respirare sans papier.
Rischi, quando il datore di lavoro ti molesta, quando il “nonno” al quale fai da badante, infermiera e figlia, non più troppo lucido, ti prende a bastonate, quando ti viene negato il giorno di riposo e la maternità, di non ottenere mai giustizia. Perché la voce di una donna irregolare o viene filtrata e amplificata da sindacati o avvocati o raramente viene ascoltata.
E se è vero che recenti normative dovrebbero proteggere gli irregolari dallo sfruttamento sul lavoro e le donne dai maltrattamenti è altrettanto reale ad oggi la loro difficile applicazione e scarsa efficacia.
E cosi se sulla carta (costituzionale in primis) anche le irregolari sono soggette di diritto, in concreto restano spesso sempre e solo “clandestine” da condannare piuttosto che tutelare.
Se poi sei donna, straniera, irregolare e vittima di tratta meriti certamente una buona posizione nel podio delle sfortune.
Le vittime di tratta subiscono violenze e umiliazioni insopportabili anche solo ad ascoltarle. Queste donne sono tra le più fiere che conosca: sono state vendute, violentate e brutalizzate – per chiarire da subito che la vita sarebbe diventata un inferno – e poi di nuovo vendute e vendute. Fino a credere di avere solo un prezzo ma nessun valore.
Come eroine antiche a volte si spezzano (o meglio vengono spezzate) ma non si piegano.
Una parte della loro dignità resta prepotentemente intatta e vigile.
A volte, come per magia, la sorte torna sui suoi passi, non vira del tutto (certe ferite sono insanabili e talvolta progrediscono mute come una cancrena) ma cambia direzione.
A volte, solo a volte, un cliente le guarda negli occhi, ne intuisce il dolore e la dignità, riconosce la donna nella puttana e la aiuta. Come può, come sa. Offrendo una cospicua somma di denaro (ma i soldi non bastano mai per affrancarsi dagli sfruttatori), o aiutandola nella fuga, oppure indirizzandola alle associazioni che si occupano di vittime di tratta.
Ne ho visti tanti, spesso assolutamente insospettabili, di questi clienti “buoni”, venire a chiedermi che la loro “amica” venisse liberata dai protettori e ottenesse un permesso di soggiorno.
A volte la buona sorte si serve e si manifesta attraverso la mano tesa degli operatori dell’unità di strada, di ottime assistenti sociali, di attente quanto rare e divise.
Ma spesso la mala sorte non va che peggiorando. Le violenze ti spezzano, i clienti ti umiliano o ignorano, la legge ti calpesta. Magari, se le botte, le bruciature, i tagli, le malattie non bastano ad abbatterti, finisci in ospedale, o magari ti rinchiudono in un Cie e l’inattività per 18 mesi lo sfruttatore non la perdonerà né a te né alla tua famiglia.
Magari ti rimpatriano. Ti faranno salire a forza su un volo “speciale” insieme a decine di tue connazionali spesso “colleghe”, coi lacci ai polsi e due poliziotti per ciascuna, ai lati, per scorta. Tutte chiedete (ma non supplicate mai, troppo fiere e troppo disilluse) di farvi scendere dall’aereo, di non riportarvi indietro. Inascoltate.
E allora. potrebbe venirvi simultaneamente un’idea. Che non poteva venire in mente a nessun altro se non a voi che avete sopportato tutto: insieme vi alzate in piedi, prima del decollo, e contemporaneamente, sotto lo sguardo attonito di decine di poliziotti, su quell’aereo che voleva riportarvi al mittente come merce avariata, defecate, tutte, insieme.
Un gesto sorprendentemente simbolico e direi sublime. Il pilota ordina di farvi scendere perché evidentemente il viaggio non può proseguire.
Una vittoria breve, l’espulsione è solo rimandata, ma degna di memoria (ed infatti ancora viene narrata con ammirato stupore dai testimoni).
Queste donne meriterebbero forse il primo premio della iattura.
Le vittime di tratta subiscono violenze e umiliazioni insopportabili anche solo ad ascoltarle. Queste donne sono tra le più fiere che conosca: sono state vendute, violentate e brutalizzate – per chiarire da subito che la vita sarebbe diventata un inferno – e poi di nuovo vendute e vendute. Fino a credere di avere solo un prezzo ma nessun valore.
Come eroine antiche a volte si spezzano (o meglio vengono spezzate) ma non si piegano.
Una parte della loro dignità resta prepotentemente intatta e vigile.
A volte, come per magia, la sorte torna sui suoi passi, non vira del tutto (certe ferite sono insanabili e talvolta progrediscono mute come una cancrena) ma cambia direzione.
A volte, solo a volte, un cliente le guarda negli occhi, ne intuisce il dolore e la dignità, riconosce la donna nella puttana e la aiuta. Come può, come sa. Offrendo una cospicua somma di denaro (ma i soldi non bastano mai per affrancarsi dagli sfruttatori), o aiutandola nella fuga, oppure indirizzandola alle associazioni che si occupano di vittime di tratta.
Ne ho visti tanti, spesso assolutamente insospettabili, di questi clienti “buoni”, venire a chiedermi che la loro “amica” venisse liberata dai protettori e ottenesse un permesso di soggiorno.
A volte la buona sorte si serve e si manifesta attraverso la mano tesa degli operatori dell’unità di strada, di ottime assistenti sociali, di attente quanto rare e divise.
Ma spesso la mala sorte non va che peggiorando. Le violenze ti spezzano, i clienti ti umiliano o ignorano, la legge ti calpesta. Magari, se le botte, le bruciature, i tagli, le malattie non bastano ad abbatterti, finisci in ospedale, o magari ti rinchiudono in un Cie e l’inattività per 18 mesi lo sfruttatore non la perdonerà né a te né alla tua famiglia.
Magari ti rimpatriano. Ti faranno salire a forza su un volo “speciale” insieme a decine di tue connazionali spesso “colleghe”, coi lacci ai polsi e due poliziotti per ciascuna, ai lati, per scorta. Tutte chiedete (ma non supplicate mai, troppo fiere e troppo disilluse) di farvi scendere dall’aereo, di non riportarvi indietro. Inascoltate.
E allora. potrebbe venirvi simultaneamente un’idea. Che non poteva venire in mente a nessun altro se non a voi che avete sopportato tutto: insieme vi alzate in piedi, prima del decollo, e contemporaneamente, sotto lo sguardo attonito di decine di poliziotti, su quell’aereo che voleva riportarvi al mittente come merce avariata, defecate, tutte, insieme.
Un gesto sorprendentemente simbolico e direi sublime. Il pilota ordina di farvi scendere perché evidentemente il viaggio non può proseguire.
Una vittoria breve, l’espulsione è solo rimandata, ma degna di memoria (ed infatti ancora viene narrata con ammirato stupore dai testimoni).
Queste donne meriterebbero forse il primo premio della iattura.
Ma poi penso a chi in Italia non è mai arrivato – sopraffatto dal viaggio, dai trafficanti, dai campi libici, dal mare – o peggio è arrivato orfano di fratelli, genitori o figli inghiottiti dalle onde, dalla burocrazia che ritarda i soccorsi, da pessime leggi. E non immagino possa esserci dolore più grande e incessante di questa sopravvivenza.
Rifletto su un dato che mi colpisce sempre: il numero di persone costrette a scappare dal paese in cui sono nate (23 mila al giorno nel 2012 secondo il rapporto Unar) e a quante di loro non arrivano mai.
Se pensiamo alle nostre di vite, cresciute nella salda Europa, nella pacifica (ma non sanissima) Italia, senza guerre né sistematiche calamità naturali, dove non è il clima ma semmai la cementificazione a uccidere nella stagione della pioggia, dove, ancora, vige la migliore Costituzione al mondo, non possiamo non ritenerci baciati dalla sorte. Nascere qui è stata una fortuna, non un diritto.
E se i diritti (di tutti) vanno difesi, la fortuna va condivisa.
Se pensiamo alle nostre di vite, cresciute nella salda Europa, nella pacifica (ma non sanissima) Italia, senza guerre né sistematiche calamità naturali, dove non è il clima ma semmai la cementificazione a uccidere nella stagione della pioggia, dove, ancora, vige la migliore Costituzione al mondo, non possiamo non ritenerci baciati dalla sorte. Nascere qui è stata una fortuna, non un diritto.
E se i diritti (di tutti) vanno difesi, la fortuna va condivisa.
Alessandra Ballerini
fonte: atsinistra.wordpress.com
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