martedì 30 maggio 2017

la storia dell'uomo che uccise l'imperatrice Sis(s)i


«Da sempre i Re si dedicano all’assassinio. E’ la loro professione, anche i migliori di essi come Alessandro II e Umberto hanno causato o incoraggiato con la loro complicità il massacro di parecchie decine di migliaia di caduti sui campi di battaglia, senza contare le vittime delle esecuzioni poliziesche. [..] Bisogna considerare le cose molto superficialmente per credere che l’omicidio di un Re possa portare a cambiamenti. Morto un re, se ne fa un altro.» 
Con queste parole Lev Tolstoj commentava l’omicidio, o regicidio, d’Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci. I fatti si consumarono nella città di Monza al sorgere del secolo scorso. Due anni prima una donna, imperatrice, fu assassinata da un altro anarchico italiano: la donna è l’Imperatrice Sis(s)i, l’anarchico è Luigi Luchéni. Due persone più diverse non potevano che legarsi nel momento della morte. I fatti si svolsero lontani dalle terre che avevano generato la vita di entrambi.  L’imperatrice Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach nacque a Monaco di Baviera nel 1837. Sposò Francesco Giuseppe per divenire imperatrice d’Austria, regina apostolica d’Ungheria e regina di Boemia e di Croazia.  Su questa donna è stato scritto molto, anche troppo, in ragione di ciò ho deciso di occuparmi dell’anarchico italiano, di cui pochi conoscono l’esistenza.


La madre, Luigia Lucchini, era una bracciante della provincia parmense, nei pressi dell’attuale paese d’Albareto. Luigi nacque in seguito ad un rapporto clandestino che la donna ebbe con un ricco proprietario terriero. Il figlio di Luigia non nacque in Italia, poiché la madre decise di scappare in Francia per partorire in segreto. Luigi nacque a Parigi nel 1873 e fu immediatamente abbandonato presso l’Hospide des enfants assistés. La madre riparò negli Stati Uniti, senza più interessarsi della vita del figlio. Un errore all’anagrafe riporta nelle cronache Luchéni e non Lucchini come avrebbe dovuto essere. Il ragazzo trascorse l’infanzia all’orfanotrofio Enfants Trouvés di Parigi prima di essere rimpatriato ad Albareto, dove visse tra povere famiglie e luoghi d’assistenza per orfani. Le famiglie che l’adottarono, temporaneamente, lo utilizzarono esclusivamente per svolgere lavori manuali o per elemosinare qualche spicciolo nelle strade del paese. Il ragazzo non riuscì a sopravvivere a quel mondo in trasformazione sempre a cavallo tra povertà e miseria, decidendo di emigrare in Europa.
Emigrare significava vagabondare.
Emigrare non significa scappare alla propria sorte.
Luigi dovette svolgere il servizio militare presso il Reggimento cavalleggeri Monferrato a Napoli. Partecipò come soldato a cavallo alla guerra in Africa Orientale, dove prestò servizio agli ordini del principe Raniero de Vera d’Aragona. Con il principe ebbe, probabilmente, un buon rapporto, tanto da seguirlo come attendente, una volta conclusasi la guerra in Africa. Alle dipendenze del principe Raniero ebbe modo di conoscere e frequentare l’alta borghesia della società borbonica.


La sua vita non poteva seguire una linea retta.
Luigi Luchéni non era destinato alla tranquillità.
Le frequentazioni insinuarono nel ragazzo l’idea di poter ambire a ruoli importanti nella società napoletana dell’epoca. La sua ambizione era di dirigere il carcere cittadino.
Non ottenne l’impiego sperato.
Scappò in cerca di qualcosa che ancora non sapeva.
Errava per l’Europa in preda a forti trasformazioni sociali e politiche.
L’Europa gli andava stretta.
Pensò e cercò di emigrare negli Stati Uniti.
Non riuscendo nel suo intento riparò nella città di Losanna, in Svizzera, trovando lavoro come manuale nella costruzione della Posta.
Nella città svizzera si avvicinò a persone e agli ideali legati all’anarchia.
Gli argomenti principali, di quel periodo storico, in ambito anarchico vertevano sull’opportunità di compiere un regicidio.
La mente mi porta a pensare che, scontento della vita, volle legare il suo nome ad un progetto che lo avrebbe ricordato per sempre nei libri di storia.
Chi uccidere?
Meglio, chi tentare di uccidere?


Inizialmente decise di acquistare un’arma, ma non avendo soldi a sufficienza per una pistola o un pugnale decise per una lima triangolare.
Agli inizi di settembre del 1898 in battello si recò ad Evian-les-Bains, luogo di villeggiatura dell’alta aristocrazia europea.
Persisteva il problema iniziale: chi uccidere?
In questa sua assoluta incertezza risiede la differenza con Gaetano Bresci, l’omicida d’Umberto I. Bresci volle, fortissimamente volle, uccidere Umberto I. Luigi Luchéni era un vagabondo senza idee precise, voglioso di compiere il folle gesto in preda a deliri di notorietà.
Giunto ad Evian-les-Bains acquistò, o rubò questo non è dato sapere, un catalogo degli ospiti illustri. Queste informazioni le possiamo conoscere poiché al momento dell’arresto il catalogo era ancora nelle tasche del vagabondo italiano che si credeva un anarchico.
In quel luogo non trovò la giusta ispirazione per compiere l’omicidio.
Ginevra era il nuovo obiettivo: era a conoscenza della presenza del Duca d’Orléans in quella città. Purtroppo per Luchéni il pretendente al trono di Francia aveva lasciato la Svizzera prima del suo arrivo.
Non tutto era perduto. A Ginevra incontrò un commilitone che aveva svolto con lui servizio militare a Napoli, Giuseppe Abis della Clara. Il compagno d’armi apparteneva ad una nobile famiglia e si trovava a Ginevra per operare nell’ambito dei trasporti. La sua attività gli permise di conoscere molti cocchieri. Fu Giuseppe a rivelare a Luigi l’arrivo dell’imperatrice Elisabetta d’Austria a Ginevra. L’imperatrice Sis(s)i era in compagnia della sola contessa ungherese Irma Sztaray.
La leggenda riporta una frase che Abis della Clara disse a Luchéni:  «Ecco chi puoi uccidere.»
Una piccola annotazione personale: erano tutti anarchici sul finire del XIX secolo?
Forse dovremmo domandarci chi voleva la morte di determinate persone in quel periodo storico.
L’imperatrice era in incognito a Ginevra, decidendo di alloggiare presso l’Hotel Beau-Rivage. L’imperatrice Elisabetta, sempre vestita di nero dopo il suicidio del figlio Rodolfo, era difficile da riconoscere poiché celava il volto dietro una veletta e si accompagnava sempre con l’ombrellino. Il 10 settembre la donna si stava recando al molo, per prendere il battello per Montreux, quando un uomo la pugnala al petto con un colpo secco. Luchéni aveva nascosto la lima sotto un mazzo di fiori per non destare preoccupazioni nei passanti. L’imperatrice Elisabetta si accasciò per l’urto ma non si accorse della ferita: solo sul battello svenne nelle braccia della contessa ungherese. Il battello si arrestò e fece immediata retromarcia per sbarcare l’ospite ferita. Giunta in albergo spirò dopo un’ora senza aver mai ripreso conoscenza. L’autopsia rivelò che la lima di Luchéni aveva trafitto il ventricolo sinistro e che l’imperatrice era morta d’emorragia interna.
L’omicida?
Luchéni fu fermato da quattro passanti vicino al luogo dell’attentato.
Al commissario che l’interrogava sul motivo del gesto rispose «Perché sono anarchico. Perché sono povero. Perché amo gli operai e voglio la morte dei ricchi.»
Devo tornare alle parole di Tolstoj per cercare di comprendere il gesto:  «Non si deve uccidere né Alessandro, né Carnot, né Umberto, né gli altri, ma cercare di far loro condividere quest’opinione che sono essi stessi degli assassini, che non hanno il diritto di uccidere provocando guerre. Bisogna soprattutto impedir loro di uccidere, e rifiutarsi di uccidere ai loro ordini.»
Una riflessione personale: perché nessuno si scandalizza quando i Re sono uccisi in seguito a congiure di Palazzo?


Giunti a questo punto vi chiederete perché ho scritto il nome dell’imperatrice Sis(s)i senza usare la doppia: un antiquario di Monaco di Baviera, Heinemann, nel 1998 pubblicò diversi articoli nei quali sosteneva che l’imperatrice Elisabetta si firmava confidenzialmente Lisi. Heinemann sostiene di possedere alcuni originali di queste lettere.
Allora perché Sis(s)i?
Sembrerebbe che sia stato il futuro marito, Francesco Giuseppe, a far nascere l’equivoco interpretando la L iniziale di Lisi come una S.
Sul come sia divenuta Sissi lo dovremmo chiedere alla moderna cinematografia.
Nel 1998 è stato pubblicato il diario dell’imperatrice, dal quale emerge che Elisabetta non amava la vita di corte, la famiglia Asburgo e la loro politica. In questi diari la donna si augura di «morire improvvisamente, rapidamente e se possibile all’estero.»
Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach dovrebbe essere stata accontenta in tutti i suoi propositi.
Ora chiediamoci: è possibile che odiava tutto quello che la circondava?
Ossessionata dal culto della propria bellezza, Elisabetta concentrava tutte le energie nel tentativo di conservarsi giovane, bella e magra. Negli anni settanta e ottanta gli impegni di corte non trovavano spazio nella giornata dell'Imperatrice. Per preservare la giovinezza della pelle, Elisabetta faceva uso di maschere notturne - a base di carne di vitello cruda o di fragole - e ricorreva a bagni caldi nell'olio d'oliva. Per conservare la snellezza, oltre a rispettare il rigoroso regime alimentare, dormiva con i fianchi avvolti in panni bagnati e beveva misture d’albume d'uovo e sale.  Costringeva inoltre la propria dama di corte a seguirla durante interminabili, e forsennate, passeggiate quotidiane che duravano sette ore filate, di cui la stragrande maggioranza delle dame di compagnia non riusciva a sostenere il ritmo e che era pertanto costretta a terminare in carrozza.
La fortuna della bellezza non sempre si associa alla riconoscenza per quanto avuto in dono dalla vita.
Luchéni Luigi fu condannato all’ergastolo. In prigione imparò il francese e scrisse le sue memorie. La sua vita si arrestò nel 1910 dopo probabile suicidio.
Probabile?
Fu ritrovato appeso nella cella con una cintura, e tutti sappiamo che il primo oggetto che è ritirato in prigione ai detenuti è la cintura dei pantaloni.
La testa, recisa, la potete trovare presso l’istituto di patologia di Vienna.
Per molti anni la testa dell’anarchico italo - francese fu oggetto d’osservazione da parte di politici e rivoluzionari, tra i quali occorre ricordare Lenin e Molotov.
Forse in quella visione hanno trovato fondamento per le proprie idee?

Fabio Casalini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/


Bibliografia


Erika Berstenreiner - L'imperatrice Sissi. Storia e destino di Elisabetta d'Austria e dei suoi fratelli, Milano, Mondadori, 2002,


Lanfranco De' Clari - Il mandante dell'assassino di Sissi in «Cenobio - Rivista culturale della Svizzera italiana». 200



Maria Matray, A. Kruger - L'attentato. La morte dell'imperatrice Elisabetta e il delitto dell'anarchico Lucheni, MGS Press, Trieste 1998


Elisabetta d'Austria. Diario poetico (edizione italiana a cura di Brigitte Hammann), Trieste, Edizioni Mgs Press, 1984

incubo guerra nucleare

ecco chi sono e quante testate hanno i paesi con l'atomica

Secondo il Bulletin of the Atomic Scientists l’umanità si trova a un'allarmante distanza di 2 minuti e 30 secondi dalla catastrofe nucleare

di Michael Pontrelli

Era dai tempi della Guerra fredda che il mondo non si trovava così vicino al baratro di un conflitto nucleare come in queste ore. I rapporti tra Stati Uniti e Corea del Nord sono ormai al limite come confermano le ultime dichiarazioni ufficiali arrivate dai due paesi. "E' finita l'ora della pazienza strategica, cercheremo di garantire la sicurezza nella zona della Corea del Sud con mezzi pacifici, ma tutte le opzioni sono sul tavolo" ha detto il vicepresidente americano Mike Pence. "Una guerra nucleare potrebbe scoppiare da un momento all'altro nella penisola coreana" gli ha fatto eco l'ambasciatore nordcoreano all'Onu, Kim In Ryong.

Orologio dell'apocalisse spostato in secondi in avanti 

E una conferma che la situazione sia davvero seria e preoccupante arriva dal Bulletin of the Atomic Scientists che ha spostato in avanti di 30 secondi le lancette del suo simbolico Orologio dell’apocalisse, secondo cui l’umanità si trova a un’allarmante distanza di 2 minuti e 30 secondi dalla catastrofe nucleare. L’andamento dell’orologio è determinato da un consiglio di eminenti esperti di sicurezza globale, tra cui figurano ben 15 premi Nobel. Ogni spostamento tiene conto delle principali minacce alla civiltà, compresa ovviamente la minaccia di una guerra nucleare. Anche perché la storia insegna che ogni guerra si sa come incomincia ma mai come si sviluppa. Tutto può succedere. Non si scherza con il fuoco...


Russia e America guidano la classifica delle potenze nucleari 

Allo stato attuale quali sono le potenze nucleari del pianeta e di quante armi dispongono? Secondo i dati a disposizione del Bulletin of the Atomic Scientists gli arsenali esistenti sono più che sufficienti a determinare la fine della civiltà. Le potenze nucleari sono ben nove. La parte del leone la fanno le due superpotenze storiche ovvero Russia e Stati Uniti. Mosca dispone di 4490 testate a cui devono aggiungersi altre 2510 da smantellare per un totale di 7000 ordigni nucleari. Numeri più o meno simili per Washington: 4480 testate più 2300 da smantellate per un numero complessivo di 6780.

Armamenti consistenti anche per altri sei paesi 

Dietro i due giganti al terzo posto figura la Francia con 300 bombe nucleari. Parigi precede di poco la Cina che vanta un arsenale di 260 ordigni. Al quinto posto il Regno Uniti con 215 testate. Numeri consistenti anche per Pakistan (140), India (120) e Israele (80). Chiude la classifica l’ultima arrivata ovvero la Corea del Nord che al momento disporrebbe di soli 8 ordigni nucleari, numero piccolo ma sufficiente comunque a creare un disastro in estremo oriente considerando che i suoi vicini di casa, Corea del Sud e Giappone, sono paesi con aree geografiche ad altissima densità abitativa.

Einstein: la quarta guerra mondiale sarà combattuta con le pietre 

“Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza Guerra Mondiale, ma la quarta sarà combattuta coi bastoni e con le pietre” disse il celebre fisico tedesco Albert Einstein. Questo funesto presagio, almeno per il momento, non sembra aver fatto presa sui cavalieri dell’apocalisse atomica.

Fonte: notizie.tiscali.it

fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it/

giovedì 25 maggio 2017

un eretico di nome Michelangelo


Il 18 febbraio del 1564, Michelangelo Buonarroti muore, quasi ottantanovenne, a Roma nella sua residenza di piazza Macel de' Corvi, assistito da Tommaso de' Cavalieri.
L'età avanzata non permise al grande artista di sopravvivere alle notizie che giungevano dal Concilio di Trento, dove poco tempo prima era stato deciso di coprire le parti, definite, oscene del Giudizio Universale.  Nelle ore successive la morte, un manipolo di uomini della Santa Inquisizione si presentano nell'abitazione dell'uomo divenuto genio. 
Perché l'Inquisizione si presenta a casa di Michelangelo?

Cosa cerca?
Nell'inventario redatto il giorno successivo, 19 febbraio, sono registrati pochi beni, tra cui una decina di cartoni, la Pietà e due piccole sculture. In una cassa viene trovato un piccolo tesoro, che nessuna persona si sarebbe immaginato in una simile abitazione.
Dei disegni e degli schizzi non vi è traccia. Michelangelo stesso li gettò nel fuoco, poco prima di morire, per farli scomparire per sempre.
Perché il maestro decise di distruggere i propri disegni?
Risaliamo la linea del tempo per cercare di comprendere gli eventi relativi ai momenti successivi la morte del grande artista.
Michelangelo fu chiamato a Roma nel 1505.
Fu probabilmente Giuliano da Sangallo a raccontare a Papa Giulio II, eletto nel 1503, i grandi successi fiorentini dell'artista. Giulio II si era dedicato ad un ambizioso programma di governo che intrecciava politica ed arte. Il Papa si circondò dei più grandi artisti dell'epoca, da Bramante a Raffaello, nell'obiettivo di restituire a Roma la grandezza del passato.


Michelangelo ottenne il compito di realizzare una sepoltura monumentale per il Papa. L'accordo fu raggiunto in tempi relativamente brevi, due mesi, permettendo all'artista, dopo il pagamento di un cospicuo anticipo, di fare ritorno in Toscana, alla volta di Carrara, per acquistare i blocchi di marmo necessari al compimento del monumento. Il lavoro di estrazione e scelta del marmo durò quasi un anno. In quel periodo a Roma si mise in moto un complotto ai danni dell'artista toscano, probabilmente voluto ed accelerato dall'invidia dei colleghi. Tra questi il Bramante fu particolarmente attivo, distogliendo l'attenzione del Papa dal progetto della sepoltura poiché giudicata di cattivo auspicio per una persona ancora in vita.
La primavera successiva Michelangelo si recò a Roma con i blocchi di marmo necessari al compimento dell'opera monumentale. In breve tempo scoprì che il progetto non era più al centro degli interessi papali. Sentendosi minacciato decise di fuggire da Roma.
Di quel periodo la frase “si stava a Roma penso che fussi fatta prima la sepoltura mia che quella del Papa”.
Tornò a Firenze, dove a nulla valsero le richieste del Papa di tornare a Roma.
La calma tornò dopo diverse lettere del Papa alla Signoria di Firenze. L'occasione per la riconciliazione fu la visita a Bologna del Papa nel novembre del 1506. Giulio II affidò all'artista l'incarico per un ritratto in bronzo da affiggere in San Petronio. Ultimato l'impegno bolognese, Michelangelo tornò a Firenze per portare a compimento progetti non finiti. Nella primavera del 1508 una lettera papale lo intimava di raggiungere Roma nel minor tempo possibile. Giulio II decise di occupare l'artista con un'opera dalle proporzioni che superavano l'umano: la ridecorazione della volta della Cappella Sistina. La strada da percorrere era irta d'ostacoli a causa della tecnica poco utilizzata dal maestro, del confronto con i grandi maestri fiorentini e delle dimensioni eccezionali dell'opera. Lo straordinario affresco fu inaugurato la vigila di Ognissanti del 1512. Pochi mesi dopo Giulio II morì.
Nel febbraio del 1513 gli eredi del Papa appena defunto decisero di riprendere il progetto della tomba monumentale. Tra le clausole contrattuali vi era quella che legava l'artista a lavorare esclusivamente alla sepoltura papale con un termine massimo di sette anni per il completamento. Michelangelo lavorò intensamente all'opera senza rispettare la clausola esclusiva per non precludersi guadagni derivanti da altre commissioni.
Con la salita al soglio pontificio della famiglia Medici di Firenze, Michelangelo fece ritorno nella sua amata Toscana per eseguire opere commissionate dal Papa.


Il sacco di Roma del 1527 modificò radicalmente le posizioni e le visioni. Giunta a Firenze la notizia dello smacco inferto a Papa Clemente VII, la città insorse contro il delegato del Papa, Alessandro de' Medici, cacciandolo ed instaurando un nuovo governo repubblicano. Michelangelo aderì al nuovo regime.
Le forze in campo erano nettamente a sfavore dei nuovi dominanti, tanto che il 12 agosto del 1530 i Medici fecero ritorno in città. Michelangelo, che sapeva d'essersi compromesso con la famiglia de' Medici, si nascose riuscendo a fuggire dalla città, riparando a Venezia.
Clemente VII, mosso dalla consapevolezza che Michelangelo fosse l'unico artista capace di dare forma ai sogni di gloria della famiglia, lo perdonò a patto che riprendesse i lavori nella chiesa di San Lorenzo a Firenze, portando a compimento il sogno della monumentale libreria.
La storia corre veloce.
La tomba di Giulio II fu abbandonata?
Assolutamente no. Nell'aprile del 1532 l'artista firmò il quarto contratto per la monumentale opera con i familiari del Papa. In questo periodo conobbe e si legò fortemente a Tommaso de' Cavalieri, che gli stette vicino sino alla fine. Nel frattempo Clemente VII commissionò all'artista la decorazione della parete di fondo della Cappella Sistina con il Giudizio Universale. Il Papa morì poco tempo dopo, sostituito da Paolo III che confermò la commissione e nominò Michelangelo pittore, scultore e architetto del Palazzo Vaticano.
In un crescendo di notorietà si giunge al 1537.
Anno fondamentale per questa narrazione.
Quale il motivo?
Dal 1537, circa, l'artista aveva stretto amicizia con la marchesa di Pescara, Vittoria Colonna. La donna introdusse Michelangelo al circolo viterbese del cardinale Reginald Pole. La stretta cerchia di frequentatori era animata dal cardinale Giovanni Morone e da Pietro Carnesecchi, che morirà per mano dell'inquisizione il 1 ottobre del 1567.
All'interno di quel circolo culturale si aspirava ad una riforma della chiesa Cattolica, sia interna che nei confronti del resto della cristianità. Queste teorie influenzarono certamente Michelangelo nelle opere che eseguì in seguito alla sua introduzione nella ristretta cerchia degli amici del cardinale Pole.


Chi erano queste persone che si riunivano intorno alla figura del cardinale inglese?
Il movimento degli Spirituali fu costituito da un insieme di prelati e umanisti attivi negli ambienti della curia romana negli anni centrali del XVI secolo. Una grande parte di questi pensatori si riunì attorno al cardinale Pole nel corso della sua legazione apostolica a Viterbo, dando luogo alla famosa Ecclesia viterbensis. L'intenzione di queste persone era riformare la Chiesa all'interno, deprecando la rottura con Roma operata da Lutero. Questo movimento fu notevolmente influente in Vaticano, tanto che il cardinale Pole mancò l'elezione a Papa per un soffio. Quest'evento rappresentò l'inizio della fine degli Spirituali, scardinati dall'avanzata inquisitoriale promossa da Gian Pietro Carafa, che salirà in seguito al soglio che fu di Pietro con il nome di Paolo IV.
Cosa accadde durante il Conclave che non elesse il cardinale Pole per un solo voto al soglio di Pietro?
Gian Pietro Carafa, cardinale ed inquisitore, propose all'assemblea una documentazione del Santo Uffizio attraverso la quale dimostrava l'eresia del cardinale inglese.
Pole decise di allontanarsi da Roma, godendo di una rendita che il nuovo Papa, Giulio III, li riconobbe.
Nel 1554 il cardinale fu inviato da Giulio III in Inghilterra come legato papale, al fine di riportare la terra d'Albione sotto il dominio cattolico. L'anno seguente il Papa morì, sostituito da Carafa con il nome di Paolo IV.
Il nuovo pontefice riprese la crociata contro gli spirituali: decise di inquisire il cardinale Morone e di richiamare a Roma il cardinale Pole. L'inglese decise di rimanere a Londra, dove si spense qualche anno dopo come ultimo arcivescovo cattolico di Canterbury.
Michelangelo s'inserì profondamente in questo contesto, e prova ne sono le lettere con la marchesa Colonna, di cui siamo a conoscenza grazie allo scritto di Francisco de Hollanda intitolato Quattro dialoghi sulla pittura. All'interno del testo ritroviamo: “Michelangelo era solito recarsi nelle giornate domenicali con la signora marchesa di Pescara nel convento domenicano di San Silvestro al Quirinale per ascoltare la lettura delle Epistole di san Paolo”.
Inoltre, grazie all'Aretino, siamo a conoscenza della corrispondenza tra l'artista e Gualteruzzi, inserito nella corte romana e in strettissimi rapporti con gli Spirituali.
Gli ultimi anni di vita dell'artista furono caratterizzati da un progressivo abbandono della pittura e della scultura, esercitata solo in opere di carattere privato.
Si giunge al 21 gennaio del 1564: quel giorno dal Concilio riunito a Trento giunge la decisione di coprire le parti, considerate, oscene del Giudizio Universale.
Pochi giorni dopo si spegne il genio di un uomo chiamato Michelangelo.
Una domanda sorge spontanea: cosa cercavano gli inviati della Santa Inquisizione nell'abitazione del maestro?
La risposta appartiene al vento, che veloce trascinò con se il fumo di quel camino.

Fabio Casalini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/

Bibliografia
Ettore Camesasca - Michelangelo pittore - Milano, Rizzoli, 1966
Umberto Baldini - Michelangelo scultore - Milano, Rizzoli, 1973
Lutz Heusinger - Michelangelo, I protagonisti dell'arte italiana - Firenze, Scala Group, 2001
Antonio Forcellino - Michelangelo. Una vita inquieta - Roma-Bari, Laterza, 2005
Giorgio Lise - L'altro Michelangelo - Cordani, Milano 1981.
Claudia Mancini - Michelangelo Buonarotti e la Marchesa di Pescara - laporzione.it
Veronica Copello - Vitoria Colonna - ereticopedia.it

“Danni da vaccini? Niente paura, paga il ministro Lorenzin”

«Niente paura, i vaccini sono sicuri. Tant’è vero che, se dovessero sorgere problemi di salute in seguito all’inoculo, ne risponderei personalmente io, Beatrice Lorenzin, il vostro ministro». Scherzi a parte: se la sentirebbe, la Lorenzin, di firmare un documento del genere, rivolto ai milioni di genitori che ora il governo Gentiloni costringe a far super-vaccinare i figli, con ben 12 vaccinazioni obbligatorie (caso unico al mondo), sotto pena di sanzioni pesantissime, fino alla revoca della patria potestà? E’ quello che si domanda Massimo Mazzucco, che ha steso una “lettera aperta al ministro della salute”, nella quale invita la Lorenzin a sottoscrivere una garanzia di assoluta incolumità per i bambini, anche neonati, che – in virtù del clamoroso decreto d’urgenza di Palazzo Chigi – dovranno essere sottoposti a un piano di super-vaccinazione che non ha precedenti nella storia dell’umanità, nonostante le enormi perplessità che, in ambito medico-scientifico, stanno crescendo sui vaccini: molti dei quali appaiono inutili, alcuni probabilmente anche nocivi a causa delle sostanze neuro-tossiche in essi contenuti.
«Gentile Ministro Lorenzin», esordisce Mazzucco, «lei condivide, insieme a gran parte dell’accademia scientifica, la posizione che “i vaccini sono sicuri”, e che “non esiste correlazione fra vaccini pediatrici e gravi disordini di tipo neurologico, come ad Beatrice Lorenzinesempio l’autismo o altre malattie dello sviluppo”». E ora, continua Mazzucco su “Luogo Comune”, sempre rivolgendosi alla Lorenzin, «il suo governo vuole introdurre l’obbligatorietà vaccinale a livello nazionale, triplicando nel contempo il numero dei vaccini obbligatori». E dato che «l’imposizione di un obbligo di questo tipo comporta anche delle responsabilità da parte di chi lo impone», sottolinea Mazzucco, «la invitiamo a dimostrare con i fatti ciò che finora ha sostenuto a parole, firmando pubblicamente la dichiarazione che segue». Eccola: “Io sottoscritta Beatrice Lorenzin, in qualità di ministro della salute della repubblica italiana, mi assumo personalmente ogni reponsabilità che potesse derivare dall’inoculazione vaccinale obbligatoria ad un qualunque bambino italiano, qualora questo bambino dovesse subire dei gravi danni di tipo neurologico, certificati da un tribunale della repubblica italiana, in seguito a tale inoculazione”.
In questo modo, continua Mazzucco, «non solo potrà rassicurare tutte le mamme italiane che oggi si preoccupano per la salute dei propri figli, ma potrà anche fugare il diffuso sospetto che l’introduzione dell’obbligo vaccinale (con contemporanea triplicazione del numero minimo) non sia affatto una esigenza di tipo sanitario, ma piuttosto un grosso regalo fatto dal nostro governo alle case farmaceutiche». E a proposito: ogni volta che la ministra ripete pubblicamente che “i vaccini saranno gratuiti”, «si ricordi anche di specificare che saranno certamente gratuiti per chi effettua la vaccinazione, ma che il costo di tali vaccinazioni sarà comunque pagato alle case farmaceutiche dallo Stato italiano, e quindi da tutti noi cittadini», conclude Mazzucco. «Da una parte quindi ci obbligate a vaccinarci, e dall’altra ci obbligate a pagare, con i soldi delle nostre tasse, il conto – triplicato – alle case farmaceutiche».

fonte: http://www.libreidee.org/

sabato 20 maggio 2017

il sesso nascosto sotto la cenere di Pompei


Facendone un peccato il Cristianesimo ha fatto molto per il sesso.
[Anatole France, Il giardino di Epicuro, 1894]
Partiamo da lontano, dal giorno in cui tutto si fermò. 
Nel 79 si assiste al principale evento eruttivo, d’ogni epoca, del Vesuvio. La forza del vulcano ha modificato il paesaggio e provocato la distruzione d’Ercolano, Pompei, Stabia ed Oplontis.
La vita di queste città è rimasta sepolta sotto strati di ceneri, pomici e lava sino al XVIII secolo.
Per quanto concerne la data, ci si affida ad una lettera di Plinio il Giovane, indirizzata a Tacito, nella quale fa riferimento al “nonum kal spetembres” ossia nove giorni prima delle Calende di settembre.[1] Corrisponde al 24 d’agosto.  In quanto testimonianza più rilevante riporto un brano della lettera: “si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna, si seppe poi che era il Vesuvio: nessun’altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la forma. Infatti slanciatosi in su in modo da suggerire l’idea di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami”.[2]


I ritrovamenti avvenuti durante recenti scavi archeologici potrebbero spostare la data di qualche mese, verso l’autunno, per diversi motivi: tra questi una moneta raffigurante la quindicesima acclamazione di Tito, avvenuta nei giorni seguenti l’otto di settembre del 79.
Gli abitanti del mondo moderno hanno una grande possibilità: entrare nella vita dell’antica civiltà romana all’improvviso. Recarsi a Pompei è felicità, è godere di quello che possiamo solo leggere nei libri di storia. Tutti noi possiamo effettuare uno scarto temporale ed indossare i panni degli antichi abitanti la terra martoriata dal vulcano.


Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è crearne dei nuovi.
[Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1763]
I resti sono a disposizione di tutti, sino a quando l’uomo non deciderà di distruggere l’enorme lascito. La politica non ha saputo mantenere e sfruttare questo meraviglioso dono.
Un percorso, tra i tanti, desta curiosità al visitatore attento.
Il sesso praticato nell’antica Roma.
Nella città di Pompei sono stati identificati circa 25 lupanari.
Le prostitute erano chiamate lupae, da cui il termine lupanar per identificare i bordelli.
I lupanari erano spesso collocati nei pressi di incroci di strade secondarie. [3]
Uno di questi luoghi era composto da 10 ambienti con letti in muratura che venivano ricoperti di materassi. All’ingresso delle stanze sono state rinvenute decorazioni murali erotiche, il cui scopo, si presume, fosse quello di spiegare le specialità delle ragazze.
Le prostitute erano generalmente schiave, il ricavato del loro lavoro andava direttamente al proprietario del luogo.
Da quello che si può comprendere il prezzo medio per usufruire dei servizi della prostituta era pari ad una bevuta di vino.
Schiavitù, basso costo e luoghi minuscoli.
Niente di nuovo sotto il sole.
Le ragazze per attirare la clientela, con molta probabilità, vantavano la propria merce in strada, davanti al bordello, oppure si offrivano nude da una finestra.
Il termine prostituta deriva da prostare, stare davanti e prostituere, mettersi in mostra.
Un passaggio di Lucio Anneo Seneca ritengo possa risultare utile: "Nuda si trovava sulla riva, a piacere dell'acquirente; ogni parte del suo corpo è stato esaminato e soppesato. Vuoi ascoltare il risultato della vendita? Il pirata ha venduto; il protettore acquistato, che lui la possa utilizzare come una prostituta."[4]
Anche Decimo Giunio Giovenale parlò di queste donne: “la prostituta stava ritta in piedi e nuda con capezzoli dorati all’ingresso della sua camera.”[5] 
Il proprietario ricavava reddito dal locale non solo sfruttando le ragazze-schiave, ma affittando la stanza a donne libere che svolgevano le loro attività lontano da occhi indiscreti.
Il cliente della prostituta era di ceto basso e comprendeva, tra gli altri, marinai di passaggio nella città ai piedi del vulcano.
In determinati momenti il bordello doveva essere molto utilizzato poiché fuori delle stanze sono state rinvenute molte scritte, riportate sui muri dai clienti durante l’attesa del proprio turno.
Tra questi graffiti possiamo ritrovare: Hic ego puellas multas futui (qui ho sfottuto molte fanciulle), Hic ego, cum veni, futui, deinde redei domum (qui io, dopo il mio arrivo, ho sfottuto; dopo sono ritornato a casa) e molte altre.

Togli le prostitute dalla società e ogni cosa verrà sconvolta dalla libidine.
[Sant’Agostino, De ordine II]
Torniamo al lupanare, di recente ristrutturazione, dell’antica Pompei.
Luogo di perdizione.
Luogo prestato al piacere erotico trasgressivo.
Di quel periodo rimangono le pitture erotiche che raffigurano uomini e donne in diverse posizioni sessuali.
Le interpretazioni fanno riferimento ad una sorta di catalogo, un insieme di prestazioni che le donne, schiave, erano in grado di fornire.
Non solo.
L’egocentrismo era molto presente anche all’epoca dei fatti narrati.
Le donne volevano vantarsi delle prestazioni che erano in grado di offrire?
Gli uomini si beavano delle loro capacità amatoriali?
Ragazzi ed uomini, come novelli Priapo, attraversavano le strade di Pompei alla ricerca della soddisfazione sessuale. [6]


I bordelli e la prostituzione in genere hanno interessato i più grandi pensatori della nascente religione Cristiana.
Secondo Sant’Agostino senza le prostitute la società sarebbe sconvolta dalla libidine. Al vescovo di Ippona si rifà Tommaso d’Aquino: “La donna pubblica è nella società ciò che la cloaca è nel palazzo: togli la cloaca e l’intero palazzo ne sarà infettato. Dove Agostino dice che la meretrice fa nel mondo ciò che la sentina della nave fa nel mare o la cloaca nell’edificio. E similmente ad una sentina: leva la sentina dal mondo e la vedrai pullulare in esso la sodomia. Per la quale ragione al tredicesimo capitolo de La Città di Dio lo stesso Agostino dice che la terrena rese turpitudine lecita il fruire delle prostitute”. [7]
Forse a Pompei avevano compreso qualcosa che al moderno abitante le stesse terre sfugge:
Per abolire la prostituzione bisognerebbe abolire gli uomini. [Maria Teresa d’Asburgo]

Fabio Casalini

Per le fotografie si ringrazia Fabio Comella di Visitare Napoli (cliccando il seguente link conoscerete la sua pagina facebook: Pagina Facebook Visitare Napoli)

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/



[1] Plinio il giovane: Epistulae,
[2] Plinio il giovane: Epistulae.
[3] Eva Cantarella e Luciana Jacobelli, Pompei è viva. Feltrinelli editore.
[4] Lucio Anneo Seneca, Satire I.
[5] Decimo Giunio Giovenale, Satire.
[6] Priapo: è un dio della greca e romana, noto per le dimensioni del pene. Figlio di Afrodite. Priapo dominava l’istinto e la forza sessuale maschile nonché la fertilità della natura.
[7] Tommaso d’Aquino: De Regimine Principum, IV.

mercoledì 10 maggio 2017

lo spreco alimentare ieri e oggi


Parlando di cibo non si può non parlare di spreco alimentare. Persino Papa Francesco ha criticato duramente la nostra “cultura dello scarto”, che «colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura» (2015, p. 27). 
Un problema molto sentito, senza dubbio, poiché il sistema industriale non è ancora riuscito ad assorbire i rifiuti per reinserirli nel ciclo produttivo. Pensiamo ad esempio al packaging dei prodotti alimentari: troppo spesso dei semplici biscotti hanno pacchetti multimateriale, difficili da differenziare correttamente e che, per questo, si trasformano in rifiuto indifferenziato (con un costo per la collettività). 
Quando lo scarto riguarda il cibo la problematica è ancora più grande: come sottolineato più volte da Carlin Petrini, la nostra è una società molto strana, dove si butta un’altissima percentuale di quanto prodotto perché troppo brutto - o meglio, non abbastanza bello e perfetto - per essere venduto. Questo nonostante una buona fetta della popolazione mondiale non abbia accesso a sufficienti risorse alimentari.


Nel mondo tradizionale le cose erano ben diverse. La donna, vista come "regina del focolare", era colei a cui è (o meglio era) demandato il compito di pulizia della casa e, soprattutto, di cucinare, di nutrire la propria famiglia. Basti pensare che il cucinare era considerato quasi un atto sessuale, o comunque legato alla riproduzione: le bambine non giocavano, come oggi, a spentolare, ma erano instradate alla cura dei bambini, giocando con le bambole (o meglio le “pigotte”). I saperi della cucina erano riservati alle ragazze già mature, pronte per il matrimonio (cfr Crepaldi, 2014). Un classico stereotipo quello della donna - cuoca, ma naturalmente non è questa la sede opportuna per aprire un dibattito sulla sessualizzazione dei ruoli e sulle modificazioni avvenute nel corso del tempo. Quello su cui vorrei riflettere è invece la peculiarità, tutta femminile, di recupero sistematico degli avanzi, in un perfetto lavoro di rielaborazione a cui aggiunge il “valore aggiunto” della manualità. Mi spiego meglio: il caso tipico è senza dubbio quello dei raviolini “del plin”, specialità piemontese rinomata in tutta Italia e non solo. Si tratta di un particolare tipo di agnolotto (altro prodotto tipico della tradizione piemontese) il cui ripieno è composto, prevalentemente, da avanzi di carne. La peculiarità e data appunto dalla forma molto piccola: grazie alla manualità, al tempo necessario per effettuare ogni singolo raviolino, la donna, si può dire, “sopperisce” alla povertà degli ingredienti.
Proprio questa manualità diviene particolarmente importante oggigiorno, e si configura come un vero e proprio valore aggiunto, spendibile anche nel campo della ristorazione. Ad esempio il caso, secondo me emblematico, della Sagra della patata di Montecrestese (cfr Ciurleo, 2007; Ciurleo, 2015b), dove un vero e proprio esercito di donne lavora per preparare, ogni anno, in soli quattro giorni di festa, migliaia di porzioni di gnocchi. Gnocchi che sono diventati richiamo per i visitatori provenienti da Piemonte, Svizzera e Lombardia grazie anche ad una raffinata operazione di “marketing” che punta sul concetto di “tradizione”, “antichità della ricetta” e “sapienzialità / manualità casalinga”. Un aneddoto: proprio gli studi condotti per il conferimento agli gnocchi di patate della certificazione DeCo, Denominazione comunale, hanno fatto emergere da un lato che la ricetta è tramandata oralmente (bisogna conoscere l’esatta consistenza dell’impasto, che può variare a seconda della tipologia di patate utilizzate piuttosto che dare un rapporto fisso tra patate e farina), dall’altro che la preparazione casalinga degli gnocchi (che sembra venissero preparati anche per smaltire le patate “vecchie”, e qui ritorna il discorso della donna come principale artefice del recupero alimentare) è diventata sempre più rara.
La considerazione generale che va fatta, naturalmente, e che va di moda anche oggi (dove diverse tonnellate di alimenti vengono quotidianamente buttati causa piccoli difetti estetici che li rendono poco appetibili per la vendita), è quella secondo cui il gettare il cibo è peccato, vuoi per le contingenze economiche, vuoi anche per gli aspetti rituali. In particolare era “tabu” buttare via il pane, soprattutto per via delle simbologie e della sacralità dell’alimento. Se leggiamo le ricette tradizionali troviamo un’ampia  gamma di preparazioni che si basano sull’uso del pane raffermo. Dai canederli trentini sino ai passatelli, senza dimenticare le varie torte a base di latte (che serviva per ammollare i panini induriti) ed “avanzi di credenza” (cfr Ciurleo, 2013B).

La cucina contemporanea ed i suoi principi fondativi

«Ecco i quattro punti cardine da tenere presente nell'acquisto degli ortofrutticoli. Preferire i prodotti locali […], scegliere prodotti di stagione […], cercare il biologico […]» (Donegani - Menaggio, 2010). Sembra impossibile, almeno agli occhi degli anziani e di chi ha un minimo di esperienza con la cucina, che addirittura un testo utilizzato nella formazione dei cuochi debba riportare quelle che, per molti, sono delle banalità. È logico che una zucchina comprata a dicembre non potrà avere avuto una maturazione naturale, e che questo influisca irrimediabilmente sul suo gusto, impoverendolo, e sul suo costo, aumentandolo.


Persino Carlo Cracco, chef stellato Michelin, deve specificare, nel suo libro, che «è importante imparare a usare quello che la stagione permette di avere, così si risparmia e si gode davvero dei sapori autenticamente buoni» (Cracco, 2012). Una cosa che, fino a poche decine di anni fa, non andava specificata, ma rappresentava la norma.
Oggi l'avanguardia ristorativa punta a riportare lo chef ad un più stretto rapporto con le materie prime ed i loro cicli produttivi, e, più in generale, con la natura tout-court. Nella "Lettera aperta ai cuochi di domani", firmata a Lima dagli chef dell'International consultancy board del Basque culinary center di San Sebastian nei Paesi Baschi si evidenzia il ruolo sociale ed economico del cuoco all'interno di una società contemporanea sempre più veloce che ricerca nella gastronomia un tratto identitario sovranazionale, una base di pratiche e conoscenze comuni e condivise su cui costruire una parte della civiltà di domani (Bernieri, 2012).
Dai cuochi che si occupavano principalmente di cucinare e di inventare nuovi piatti che allietassero i palati, si è passati, oggi, agli chef-filosofi che teorizzano le evoluzioni future del gusto. Se nei libri di fantascienza degli anni ’60-'70 si teorizzava che, ben presto, si sarebbe arrivati a nutrirsi di "pastigliette" che fornissero il miglior apporto calorico e rispondessero appieno ai fabbisogni energetici umani, oggi si è pienamente consapevoli che questa strada è un vicolo cieco. La gente cerca molto altro, non vuole, e non può, rinunciare ai piaceri della tavola.
Massimo Bottura, "teorico" della Nuova cucina italiana (un movimento gastronomico nato intorno agli anni '90 del Novecento) e chef tristellato Michelin spiega che «la sintesi della nostra cucina è una saggia evoluzione delle tradizioni italiane, precisione tecnica ed un imprescindibile rapporto con gli artigiani italiani» (Bernieri, 2012, p. 14). Ecco allora che la sua cucina alterna aspetti di regionalismo italiano a vere innovazioni, quali il "croccantino di foie gras" che, nella forma, ricorda la versione mini dell'omonimo gelato (naturalmente dolce) da passeggio. «Credo che la cucina di domani sarà essenzialmente buona e sana. Finora l'ego dello chef ha preso il sopravvento sulla materia prima - in futuro questo aspetto dovrà essere necessariamente superato, l'ego dovrà essere messo da parte, la padronanza della tecnica servirà per sublimare la materia prima. Da parte mia ritengo che la cucina contemporanea debba avere meno calorie, per adattarsi ai nuovi regimi di vita, ed essere più sana. Un menù degustazione, che sia da 4 o 24 portate, deve far alzare il cliente da tavola con una digestione perfetta. No ai grassi in eccesso, la ricerca si deve concentrare sui sapori e sulla loro sublimazione» (cit. in Bernieri, 2012, p. 14). Come sono lontani gli "ipercalorici" anni '80, oramai quasi universalmente, gastronomicamente (e purtroppo non solo) diventati simboli di eccessi e di un modo di fare cucina "esagerato". Proprio negli anni '80 veniva dato alle stampe un libro molto interessante, che, sinceramente, non ho ben capito se fosse una sorta di provocatorio pamphlet o un ricettario vero e proprio: Grassi èbello, di Linda Sunshine. Un libro dove trovare ricette da migliaia di calorie, a base di burro, cioccolato, pancetta e persino merendine e snack preconfezionati e rielaborati (cito solo la Torta di Mars) e dove la frittura rappresenta la norma delle tecniche di cottura del cibo.

La "Lettera ai cuochi di domani"

Riporto integralmente il testo della "Lettera ai cuochi di domani", facilmente reperibile in rete sia in lingua originale che in varie traduzioni italiane, meglio conosciuta come Lettera di Lima, su cui faremo alcune, brevi, considerazioni antropologiche.

“Caro chef,
in relazione con la Natura:
(1) “Il nostro lavoro dipende dai doni che la natura ci fa. Tutti noi abbiamo la responsabilità di conoscere e proteggere l’ambiente, di usare la nostra cucina e la nostra voce come uno strumento per il recupero di varietà che sono patrimonio storico e ora in via di estinzione così come di promuovere nuove specie. In questo modo possiamo contribuire a proteggere la biodiversità della Terra, così come preservare e creare sapori e preparazioni”.
(2) Nel corso di migliaia di anni, il dialogo tra uomo e natura ha portato alla creazione dell’agricoltura. Siamo tutti, in altre parole, parte di un sistema ecologico. Per garantire che questa ecologia sia la più sana possibile, dobbiamo incoraggiare e praticare, sia nei campi sia nelle cucine, produzioni sostenibili. In questo modo, possiamo creare sapori autentici.
In relazione con la società:
(3) Come chef, noi siamo il prodotto della nostra cultura. Ognuno di noi è erede di un patrimonio di sapori, di modi di stare a tavola e tecniche di cottura. Ma non dobbiamo vivere questa eredità passivamente. Attraverso la nostra cucina, la nostra etica e la nostra estetica, siamo in grado di contribuire alla cultura e l’identità di un popolo, di una regione, di una nazione. Con il nostro lavoro possiamo anche diventare dei ponti tra culture diverse.
(4) Pratichiamo una professione che ha il potere di influenzare lo sviluppo socio-economico degli altri. Possiamo avere un impatto economico significativo, favorendo l’esportazione della nostra cultura culinaria e stimolando l’altrui interesse. Allo stesso tempo, collaborando con i produttori locali e applicando loro favorevoli condizioni economiche, siamo in grado di generare ricchezza a livello locale, rafforzando finanziariamente le nostre comunità.
In relazione con la conoscenza:
(5) Anche se l’obiettivo primario della nostra professione è quello di dispensare felicità e suscitare emozioni, attraverso il nostro lavoro e lavorando con esperti nel campo della salute e dell’istruzione, abbiamo un’opportunità unica per trasmettere le nostre conoscenze al pubblico, aiutando ad esempio i nostri clienti a prediligere i migliori metodi di cottura e a fare le scelte alimentari migliori per la loro salute attraverso il cibo che mangiano.
(6) Attraverso la nostra professione, abbiamo l’opportunità di generare nuove conoscenze, che si tratti di qualcosa di così semplice come lo sviluppo di una ricetta o ben più complicato come un approfondito progetto di ricerca. E proprio come abbiamo tratto beneficio dall’insegnamento degli altri, abbiamo a nostra volta la responsabilità di condividere tutto quanto abbiamo appreso.
In relazione con i valori:
(7) Viviamo in un tempo in cui cucinare può essere uno splendido modo per esprimere se stessi. Cucinare oggi è un campo in continua evoluzione, che comprende molte discipline diverse. Per questo motivo, per svolgere le nostre ricerche e realizzare i nostri sogni è importante riempirli di autenticità, umiltà e, soprattutto, passione. In definitiva, siamo tutti guidati dalla nostra etica e dai nostri valori”.


Innanzitutto bisogna considerare chi ha scritto questa lettera: il documento porta infatti in calce le firme di Ferran Adrià (elBulli, Spagna), René Redzepi (Noma, Danimarca), Alex Atala (DOM, Brasile), Massimo Bottura (Osteria Francescana, Italia), Gastón Acurio (Astrid y Gaston, Perú), Dan Barber (Blue Hill, USA), Michel Bras (Bras, Francia), Yukio Hattori (Giappone) ed Heston Blumenthal (The Fat Duck, Inghilterra). Quest'ultimo, tra non poche polemiche, ha deciso poi di non sottoscrivere più il documento di intenti poiché si è dichiarato un "bloody chef" (letteralmente un “cuoco sanguigno", in aperta controtendenza alla piega "filosofica" che i suoi colleghi hanno preso).
Basta leggere le biografie su Wikipedia dei cuochi per scoprire che si tratta di vere autorità nel campo gastronomico: Adrià e Blumenthal sono infatti gli inventori della "cucina molecolare", il primo è stato inserito anche tra i 100 uomini più influenti del Time, segno evidente che orami la professione di cuoco è diventata, nella società odierna, sempre più importante.
Un gruppo che vede esponenti della cucina francese come Michel Bras, che ha creato il suo mondo culinario da autodidatta, traendo ispirazione dalla sua regione, l'Aubrac (cfr www.braskai.net), uniti a Gastòn Acurio, definito da tutti come l'ambasciatore della cucina peruviana nel mondo, attraverso un percorso di riscoperta dei piatti tipici della sua terra rivistati per venire incontro ai sapori ed al "look" moderno; da Yukio Hattori, presidente del nipponico Hattori nutrition college, importante scuola di cucina giapponese, sino a Dan Barber, eletto nel 2002 miglior nuovo chef dal "Food and wine Magazine". A questi si aggiungono l'italiano Massimo Bottura che, invece, si forma prima con Alain Ducasse e poi con Adrià, ma approfondisce attentamente il concetto di cucina "informale", creata rielaborando piatti e materie prime tradizionali, ed l'albano-danese René Rezdepi, il cui ristorante fu eletto nel 2010 il migliore nell'ambito del San Pellegrino awards, grazie alla sua reinvenzione della nuova cucina nordica, caratterizzata da sapori decisi ed inventiva. Proprio questa nuova cucina nordica, prevede l'utilizzo di prodotti stagionali e naturali come basi dei piatti, introducendo nuovi ingredienti ricombinati con piatti tradizionali preparati con nuovi metodi.
Il testo della Lettera ai cuochi di domani è molto interessante dal punto di vista antropologico: il cuoco diventa un vero e proprio punto di unione tra le istanze dei contadini e dei produttori e quelle dei consumatori, assumendosi non più il solo compito di nutrire le persone (o tutt'al più di deliziarne il palato), quando di creare una nuova cultura (sia culinaria che economica) basata sui principi di massima già espressi dall'italianissimo Carlin Petrini, inventore di Slow food e Terra Madre. Un cibo basato sui tre principi di Buono, Pulito e Giusto.

Luca Ciurleo

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/