giovedì 29 marzo 2018

pellegrinaggio laico: i luoghi di Darwin


Per chi come me si può tranquillamente dichiarare un adoratore di Charles Darwin e del lavoro della sua vita, lavoro scientificamente impeccabile e genialmente intuitivo che ha permesso all’umanità tutta di compiere uno straordinario balzo in avanti sul terreno della conoscenza, va da sé che il massimo modo per rendere omaggio ai luoghi della sua vita sarebbe fare il giro del mondo in barca, toccando gli straordinari luoghi da lui visitati negli anni dal 1831 al 1836.
E questa è la prima considerazione da fare, per i tanti di noi che faticano a muoversi dal cortile di casa e pensano di poter capire tutto senza fare lo sforzo di muoversi ed andare a vedere le cose lì dove accadono. Delle tante, forse questa è la prima lezione che ci ha lasciato Sir Charles: per iniziare a comprendere gli straordinari meccanismi che regolano la vita sulla terra dovette fare il giro del mondo.
Il suo fantastico viaggio a bordo della Beagle gli fece intuire che tutti gli esseri viventi, le loro forme e le loro caratteristiche seguivano delle regole complesse ma precise, chiare, ricostruibili e comprensibili alla mente umana. Senza osservare dal vivo l’immensa varietà della vita sulla Terra non avrebbe probabilmente mai iniziato a pensarci.


Ma poi ci mise vent’anni per capire davvero tutte quelle regole e trovare il modo di spiegarle e dimostrarle all’umanità intera. E furono anni di studi, discussioni, dispute, polemiche, dubbi e ricerche.
Mettendo un attimo da parte il giro del mondo, obiettivamente un po’ più complesso da realizzare, un pellegrinaggio laico nei luoghi della sua vita e della sua meravigliosa parabola scientifica deve ben cominciare da Londra. E tanto per iniziare dalla fine, dal luogo della sua sepoltura.
Dopo una vita passata fra polemiche e contestazioni anche feroci alle sue idee da parte di tanti ambienti accademici e a maggior ragione delle autorità religiose, ebbe poi i funerali di stato e venne sepolto con tutti gli onori nell’Abbazia di Westminster, com’era giusto che fosse.
Non finì lì per una sua presunta conversione sul punto di morte, fake news che fu fatta circolare ma che si dimostrò completamente inventata e smentita dai suoi stessi eredi, ma perché nonostante tutto anche la chiesa anglicana, come tutta l’Inghilterra, riconobbe il suo immenso contributo al progresso del pensiero filosofico e scientifico. Si può quindi andare a trovarlo lì, nella navata centrale, vicino alla famosa tomba di Newton, un altro uomo che, come lui, non ha lasciato l’umanità come l’aveva trovata.
(Le foto sarebbero vietate, ma io non potevo non rubarne almeno una. Anche se uguale a qualunque altra, dovevo avere perlomeno una immagine che fosse solo mia).


L’altro luogo irrinunciabile è la vera “casa” del suo pensiero, l’immenso scrigno che raccoglie le cause e le conseguenze di tutto il suo lavoro, e che vide le discussioni e le dispute provocate dalle sue idee: il Natural History Museum di Londra.


Il museo è giustamente famoso e merita una visita attenta e ammirata a prescindere dallo zio Charles. È una vera miniera di reperti, fossili, scheletri ed esemplari imbalsamati di forme viventi, di specie estinte e di meraviglie zoologiche, botaniche e geologiche. La sala centrale, dove troneggia un gigantesco scheletro di Diplodocus , è un giustamente celebrato capolavoro di architettura neogotica (che è stato anche ispiratore delle scenografie della scuola di Hogward nella saga cinematografica di Harry Potter).


E magnifica è la posizione dedicata alla statua di Darwin: in cima alla scala principale, seduto in posa elegante e pensierosa, scruta con lo sguardo severo e bonario di un padre saggio tutta la sala, i visitatori, l’intero museo, e da lì l’umanità intera. Impossibile non fermarsi davanti a lui tentando di sostenerne lo sguardo, sentendosi inevitabilmente inadeguati ma altrettanto rispettosamente riconoscenti.


E poi, con uno sforzo in più, occorre allontanarsi un po’ da Londra anche se non molto, perché la gran parte di quei vent’anni che passarono dal suo ritorno a casa dopo il giro del mondo alla pubblicazione de “L’Origine delle specie” (la bibbia del pensiero scientifico moderno), Darwin in realtà li trascorse in casa. Nella sua casa e nel suo giardino, in quella che una volta era la contea del Kent ed ora fa parte del distretto londinese di Bromley: Down House.


Ma sbaglieremmo se pensassimo che li trascorse solo a pensare e a scrivere. Nossignore. In quei lunghi anni, in quella casa e in quel giardino, riprodusse in miniatura ambienti naturali e situazioni sperimentali che gli permisero di mettere alla prova, e poi di dimostrare, le teorie che mano mano prendevano forma nella sua mente geniale. Gli esperimenti di Darwin rappresentano la più spettacolare serie di dimostrazioni di quanto anche un piccolo mondo possa contenerne migliaia, e possa rappresentare il tutto partendo dal minimo.
Down House, situata a pochi chilometri da un altro luogo denso di significati storici e letterari (Groombridge, che un giorno racconteremo), oltre ad essere uno dei tanti perfetti esemplari di cottage inglese, è anche il luogo dove tante piccole meraviglie hanno aperto all’umanità la conoscenza di come essa stessa si è sviluppata e ha preso il dominio sul Pianeta Terra.  


Lo studio di Sir Charles, così tipicamente ottocentesco, con la sua scrivania, la sua ricca libreria e soprattutto con i suoi fogli riempiti di parole e di schizzi, pieno di strumenti inequivocabili come lenti e microscopi di ogni tipo, ha visto nascere disegni e schemi come quello dell’albero delle specie, che da solo tutto racchiude e tutto svela.


Ha visto mettere alla prova, smentire e dimostrare sulla carta tutti i singoli problemi che si frapponevano al disegno complessivo della teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale. E ha visto crescere delle piccole piante mentre con metodica pazienza Charles ne annotava e disegnava tutti i movimenti di crescita per capirne il meccanismo e il motore che li regolava.


E poi naturalmente la sua piccola ma straordinaria serra, dove ha trovato il modo di sperimentare come i semi possano viaggiare in mare per colonizzare isole anche molto distanti tra loro e diffondersi sulla terra.


Dove ha messo alla prova le più spettacolari orchidee per carpirne il segreto che le rendeva impollinabili da una e una sola specie di insetto. Dove ha passato giornate intere affascinato e intimorito dalla apparente insensatezza delle piante carnivore, vegetali che si comportano da predatori, per arrivare poi a comprendere non solo la necessità che le ha fatte capaci di assorbire dalla vita animale le sostanze nutritive che non trovavano nei loro terreni, ma anche gli incredibili meccanismi che erano state capaci di elaborare per arrivare a tanto, e soprattutto dimostrare che non si trattava di piante dotate di sistema nervoso come quello animale ma di piante come tutte le altre, che avevano “semplicemente” adattato gli stessi organi e le stesse cellule  di tutte le altre piante per ottenere funzioni e risultati totalmente diversi da quelli di qualunque altro vegetale (e se vogliamo ammirare magnifici esemplari di Orchidee e Piante carnivore come quelle studiate da Charles, il luogo sicuramente da non perdere è, tornando a Londra, la serra tropicale dei Kew Gardens).


E perché non restassero dubbi su quanto anche un ambiente controllato e familiare potesse rappresentare uno stimolo formidabile per il suo lavoro di genio, è stato capace di far diventare anche il suo piccolo sentiero nel bosco uno strumento indispensabile alla formulazione della sua teoria. E voglio chiudere raccontandovi come.
C’è un viale alberato che gira intorno a Down House. Quasi ogni giorno, sir Charles Darwin percorreva questo viale pensando alla soluzione ai problemi che si poneva. Il suo metodo, da scienziato autentico, era questo: appena aveva un’idea, iniziava a sottoporla a tutte le possibili obiezioni finché non ne trovava tutte le spiegazioni e la poteva considerare a prova di confutazione. È così che si fa.
Questo lavoro lo faceva mentalmente durante la sua passeggiata.
E ad ogni giro del bosco, spostava un ciottolo del sentiero sul bordo della strada.


Quando aveva risolto il problema, guardava quanti ciottoli aveva accumulato, quindi quanti giri aveva fatto pensando alla soluzione. In questo modo catalogava l’importanza e la difficoltà dei problemi che andava affrontando e risolvendo.
Fra le tante, Sir Charles è stato quindi capace di farci capire anche quanto le passeggiate nei boschi possano essere un’attività fondamentale, per ciascuno di noi e a volte anche per la storia dell’umanità.

Alessandro Borgogno

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/


Una parte di questo articolo stata pubblicata anche su www.lakasaimperfetta.it


ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.

cliniche della morte

false diagnosi, per testimoni scomodi

Incidenti stradali, rapine finite male, pallottole vaganti. Oppure decessi archiviati sotto la voce “suicidio”. O ancora: infarti fulminei e complicazioni post-operatorie. Ovvero: “Come uccidere un uomo senza lasciare traccia”. Fino alla perversione più inimmaginabile: medici che uccidono su commissione, all’interno di “cliniche della morte”. Spesso, in questo modo, spariscono testimoni-chiave: poco prima di essere ascoltati dai Pm o prima dell’audizione a qualche commissione parlamentare d’inchiesta. «Il risultato di queste morti improvvise è sempre stata la mancata individuazione di mandanti e autori dei vari delitti o stragi», scrive Paolo Franceschetti. Non si tratta di fantasie: ne parla anche Paolo Muratori nella sua “Enciclopedia dello spionaggio”, pubblicata nel ‘93 dalle Edizioni Attualità del Parlamento (“Servizi segreti, spie, terroristi e dintorni”, prefazione di Flaminio Piccoli e postfazione di Alberto Fumi). «In alcuni casi i lettori sono sembrati un po’ scettici quando abbiamo avanzato dubbi su alcune morti, soprattutto quando il referto autoptico confermava magari l’infarto o il cancro», premette Franceschetti, avvocato per molti anni e docente di materie giuridiche. Già legale delle “Bestie di Satana” Franceschetti ha indagato su alcuni tra i più oscuri misteri italiani, dal Mostro di Firenze alla strage di Erba, dal giallo di Cogne a quello di Avetrana, passando per l’omicidio di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia, e quello di Yara Gambirasio. Delitti rituali?
FleboE’ la tesi sviluppata da Franceschetti, attraverso anni di riscontri e accurate analisi: «Spesso gli investigatori non prendono neppure in esame la pista esoterica, perché non ne conoscono il linguaggio». Ovvero: «Esistono circoli occultistici che attribuiscono un valore magico a determinati delitti, che infatti sono disseminati di indizi fortemente simbolici». Spesso, secondo Franceschetti, gli inquirenti vengono depistati «da qualcuno che sta al di sopra di loro, nelle istituzioni, e di fatto “copre” gli autori di certi delitti». Magari facendo anche sparire i testimoni? Nella sua enciclopedia, Muratori – allora presidente dell’Ircs, Istituto Ricerche Comunicazioni Sociali – spiega come si può uccidere una persona facendo credere che sia deceduta per cause naturali. «E’ appena il caso di sottolineare come i metodi elencati siano stati resi pubblici nel 1993 e quindi, con buona probabilità, già all’epoca superati da tecniche molto più sofisticate e ancora sconosciute (altrimenti non li avrebbero pubblicati)», premette Franceschetti, sul blog “Petali di Loto”. Esistono killer che non sparano e non spargono sangue: utilizzano la chimica. Per esempio l’acido cianidrico, comunemente detto acido prussico, usato nell’industria come innocuo disinfettante gassoso: «Sostanza letale ad effetto rapido e sicuro», viene usata «da agenti dei servizi segreti militari per assassinare i nemici».
Poi c’è l’acido ossalico: impiegato nell’analisi chimica, come sbiancante nell’industria della stampa e nella produzione di tinture, detersivi, carta e gomma. «Anche questo usato come sostanza letale da agenti di certi servizi segreti militari per assassinare i nemici», scrive Muratori nel suo trattato enciclopedico. Non mancano le “cellule cancerogene vive”, somministrate «con iniezioni» da agenti di alcuni servizi militari per assassinare avversari e agenti nemici. «Il reperimento delle cellule cancerogene vive avviene, clandestinamente, nelle facoltà universitarie di medicina e in certi laboratori che le tengono di scorta per gli scienziati impegnati nella ricerca sulla cura del cancro», scrive Muratori. «Se una persona muore di cancro, come sospettare che sia stata uccisa?». E’ invece chiamata “cianuro” «un’arma di alluminio, con silenziatore, azionata da una pila da 1,5 volt: spara proiettili formati da piccole fiale, contenenti un veleno a base di cianuro che, dopo 5 minuti, non L'Enciclopedia dello Spionaggiolascia alcuna traccia nell’organismo umano». E’ formata da tre cilindri, l’uno dentro l’altro: «Il primo cilindro contiene una molla e un pistone. La molla mossa da una leva spinge il pistone nel secondo cilindro. A quel momento la fialetta contenente il liquido si spezza ed il veleno è spruzzato verso il volto del nemico».
La morte per “cianuro” sopravviene in pochi istanti. E quando il medico effettuerà l’autopsia, non potrà fare altro che constatare l’arresto del cuore: scontata la diagnosi, “crisi cardiaca”. Infine, il tallio: «Sostanza priva di sapore, ad effetto lento sul sistema nervoso, viene usata dalle spie per avvelenare gli agenti nemici e i traditori». Ma ancora non basta. Se queste tecniche sono state rese note nel 1993 e, quindi venivano probabilmente utilizzate nei decenni precedenti, c’è un’altra tecnica, ancora più incredibile: diagnosi infauste, ma false, per convincere la vittima di essere “condannata” da un tumore. Facile, poi, ucciderla, inserendo veleni nei liquidi chemioterapici. Una prassi allucinante, che Franceschetti ha scoperto negli atti della commissione parlamentare d’inchiesta su terrorismo e stragi, presieduta dal senatore Pci-Pds Giovanni Pellegrino. A parlare, nel 2000, non è un teste qualsiasi: si tratta dell’ex questore Arrigo Molinari, che poi sarà ucciso nella notte del 27 settembre 2005 con dieci coltellate infertegli nella sua casa di Andora (Savona). Molinari, ricorda “Repubblica”, era stato vicequestore vicario di Genova e questore di Nuoro. «Coinvolto nello scandalo della P2, era stato sospeso dal servizio e poi reintegrato. Affermava con orgoglio di aver fatto parte di Gladio».
Arrigo MolinariArrigo Molinari si era anche occupato della strana morte di Luigi Tenco: commissario a Sanremo, quel giorno del ‘67 fu il primo a entrare nella stanza del cantante. «Su tutto quello che è accaduto nelle ore successive alla scoperta del suo cadavere – disse – non è stata ancora scritta tutta la verità». Da avvocato, aggiunge “Repubblica”, negli ultimi anni Molinari si era impegnato contro il fenomeno dell’anatocismo bancario: «In seguito a un suo esposto per conto di un cliente, la procura della Repubblica di Imperia aveva aperto un’inchiesta per usura aggravata indagando sei ex direttori della filiale di Imperia di un istituto di credito che si sono succeduti dal 1982 al 2000». La morte, scrive Franceschetti, lo ha colto «proprio pochi giorni prima della prima udienza della causa per signoraggio che aveva intentato contro la Banca d’Italia». Più volte nei mesi precedenti alla morte, Molinari aveva denunciato «tentativi, da parte di “sconosciuti”, di inseguimenti e pedinamenti nei suoi confronti e dei suoi familiari». In più, «fu oggetto di vari tentativi di sabotaggio da parte di non meglio identificati “individui” nei confronti della sua autovettura: cercarono di manomettere i freni». Un uomo nel mirino, dunque, quello assassinato in Liguria: una coltellata l’ha colpito al collo lateralmente, ricorda “Repubblica”, «come se si volesse sgozzarlo».
Cinque anni prima, il 18 ottobre del 2000, Molinari risponde alle domande della commissione stragi, giunta alla sua 74esima seduta. E racconta: «Prima del 1978, a San Martino o nei pressi di San Martino, venne istituito un centro diagnostico (che adesso è presente in tutte le città d’Italia, in tutti gli ospedali), il cosiddetto Tac. Il primo di questi impianti ad essere installato in Italia. Ad installare questo impianto fu fittiziamente Rosati, che aveva la gestione di questa Tac. Ma in realtà la Tac era una struttura della P2 che doveva servire…». Pellegrino lo interrompe: «Mi scusi, avvocato Molinari: lei sta parlando della “tomografia assiale computerizzata”, cioè un modo di indagine radiografica. La P2 quindi importava per prima questo tipo di macchinario?». Molinari conferma: «Come la P2 frequentava la pellicceria di Pavia “Annabella”, gestiva anche questa struttura, perché doveva utilizzarla, non (come ha ritenuto la magistratura) per compiere truffe alla Regione, ma per avere uno strumento, e avere in mano tutti i medici di San Martino e d’Italia che dovevano servirsi di esso quando avevano dei malati da curare».
Il colonnello BonaventuraNon è tutto: «Quando capitava qualche politico o qualcuno che volevano disturbare o molestare, o che sapevano che stava poco bene, effettuavano anche una diagnosi falsa, dicendo che aveva un tumore. I malati poi, magari, si recavano in Inghilterra e scoprivano che il tumore non esisteva. Per cui questa Tac era una struttura della P2, non di Rosati; lo si sapeva, lo sapevano praticamente tutti. La P2 doveva impadronirsi della presidenza della facoltà di medicina; al riguardo c’è una mia relazione». Secondo le dichiarazioni di Molinari, riassume Franceschetti, la Loggia P2, nel 1978, grazie alla complicità di medici “fratelli”, usava le strumentazioni ospedaliere «per diagnosticare falsi tumori a persone “scomode”». Dopo, «eliminarli doveva essere facile, avvelenandoli con iniezioni che venivano fatte passare per cura. Geniale». Ma la cosa più strana, per Franceschetti, è stata la reazione della commissione a una dichiarazione così atroce: nessuna. «Se scaricate l’audizione completa, che è disponibile sul web, potrete notare come la dichiarazione di Molinari non abbia fatto sobbalzare nessuno, e come la commissione abbia preferito proseguire con altro discorso. O erano molto distratti, o non hanno capito la gravità di quanto veniva affermato, o, probabilmente, la cosa era già nota».
Certo, questa tecnica richiede tempo: quindi, se il personaggio scomodo deve essere eliminato velocemente, si può sempre ricorrere ai metodi “tradizionali” elencati nell’encliclopedia di Muratori. E la mente, aggiunge Franceschetti, non può che tornare al generale dei carabinieri Giorgio Manes, morto per “arresto cardiaco” pochi minuti prima di deporre davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sullo scandalo del Sifar – Piano Solo. O ancora al colonnello Umberto Bonaventura, dirigente del Sismi (controspionaggio, terrorismo internazionale e criminalità organizzata transnazionale), «un personaggio-chiave nel caso del dossier Mitrokhin: per primo aveva materialmente ricevuto il dossier, quindi più di altri poteva attestarne l’autenticità». Bonaventura? Morto anche lui “per infarto” «pochi giorni prima della sua audizione davanti alla commissione parlamentare chiamata ad indagare sul dossier». Franceschetti ricorda anche il colonnello Stefano Paolo FranceschettiGiovannone, «iscritto ai Cavalieri di Malta». Capocentro del Sismi a Beirut dal 1972 al 1981, poi «arrestato nel corso dell’indagine per il traffico di armi tra Olp e Br», è deceduto “per morte naturale” mentre era agli arresti domiciliari.
Nella lista dei decessi teoricamente sospetti, Franceschetti include anche quello dell’ingegner Giorgio Mazzini, capo dei vigili del fuoco di Torino, morto nel palazzo di giustizia «dove si era recato per incontrare i magistrati che si occupavano del rogo alla Thyssen Krupp». Certo, ammette Franceschetti, i sistemi di eliminazione qui riportati sono vecchi di decenni: «Oggi la scienza e la tecnica hanno fatto passi da gigante in tutti i sensi: anche in quelli, purtroppo, deputati ad uccidere un uomo senza lasciare traccia». Come regolarsi? Coltivare il dubbio è più che lecito, sostiene il giurista: «Quando le morti sono troppo tempestive, qualche domanda in più ce la si deve poter porre, senza per forza essere immediatamente tacciati per dietrologi». Quanto alla magistratura, «farebbe bene ad indagare un po’ più a fondo, senza archiviare troppo velocemente una morte solo perché sul referto autoptico c’è scritto: “cause naturali”». Magari si tratta di testimoni che potrebbero svelare retroscena imbarazzanti, per il potere. Per questo, scrive Muratori nella sua enciclopedia, non restano mai senza lavoro quei killer invisibili, così abili nell’arte di non lasciare tracce.

Fonte tratta dal sito  .

fonte: http://wwwblogdicristian.blogspot.it/

lunedì 19 marzo 2018

miti e leggende sull'immortalità


Con il termine 'immortalità' si intende la capacità o possibilità di sopravvivere in eterno. Se si escludono le figure retoriche, ad esempio l'immortalità artistica e quella storica, esistono due accezioni del sostantivo: immortalità spirituale ed immortalità fisica. 

Chiunque avverta nella realtà in cui viviamo un misterioso elemento impercettibile ai sensi ed impossibile da collocare nel regno della materialità, tende a sperimentare una visione trascendente della vita, e sulla scorta di questa consapevolezza coltiva l'idea che l'intera macchina della creazione non potrebbe funzionare in assenza di un 'motore' spirituale. L'idea dell'immortalità spirituale scaturisce proprio dalla convinzione che per via della sua essenza immateriale lo spirito sia immune dalle leggi che governano il cosmo e la materia, quindi dalla morte.

Un'ampia parte dell'umanità tuttavia non condivide questa visione. Molti interpretano la realtà esclusivamente in termini di biologia e casualità; sono cioè convinti che qualsiasi cosa esistente in natura sia il prodotto di una serie di meccanismi naturali che si sarebbero auto-assemblati per puro caso ...



A prescindere dalle convinzioni individuali, è innegabile che l'essere umano sia il solo aggregato di materia dotato di pensiero astratto, di creatività artistica, di senso dell'umorismo e di un libero arbitrio capace di elevarlo al di sopra dei propri istinti primordiali. Alcuni raggruppano queste ed altre facoltà sotto il nome di Coscienza, o Spirito. Questa esclusività denota tuttavia un rovescio della medaglia; l'uomo è anche l'unico essere vivente consapevole della propria finitezza. Il pensiero della morte - nostra ed altrui - ci addolora ed atterrisce. Perfino Gesù Cristo fu pervaso dall'angoscia nell'imminenza del proprio destino, presso l'orto degli ulivi. Coscienza, animalità e materia: elementi apparentemente inconciliabili, i quali tuttavia coesistono radicalmente in qualunque essere umano.

L'Anomalia Umana

Concetto - quest'ultimo - che sollecita la nostra prima riflessione. Che la sia esamini attraverso la lente del pensiero scientifico oppure quella del misticismo, la commistione appena descritta denota un'anomalia che mal si combina con il contesto in cui ha luogo. Se dopo miliardi di anni di presunta evoluzione zoologica nessuna delle centinaia di migliaia di specie animali esistenti sulla Terra ha sviluppato una Coscienza ad eccezione di quella umana, ebbene questa è un'anomalia scientifica. D'altro canto, se il Creatore divino scelse di collocare l'umanità in una condizione di perpetua, consapevole, dolorosa finitezza, apparentemente dovrebbe trattarsi di un'anomalia teologica, in quanto sembra contraddire l'idea che il Creatore in quanto essere supremo e perfetto sia espressione di compassione e bontà infinite.

L'anomalia darwiniana è motivabile sia in termini di casualità che di causalità. La casualità - come già illustrato - vorrebbe che sull'unico pianeta biocompatibile attualmente noto, lo spontaneo processo evolutivo di innumerevoli specie animali avrebbe prodotto un'unica specie dotata di pensiero astratto. Si tratta di un'eventualità teoricamente possibile e comunemente accettata come una cosa ovvia, tuttavia appare quanto meno ambigua dal punto di vista probabilistico. La spiegazione causale invece ipotizza che gli esseri umani, data la loro essenziale unicità rispetto a qualsiasi altro essere vivente sulla Terra, in realtà non sarebbero originari di questo pianeta. In parole povere noialtri umani saremmo una specie 'aliena' collocata in un habitat improprio, di conseguenza avremmo causato un grave squilibrio all'interno di un ecosistema altrimenti armonioso e preciso come un meccanismo ad orologeria.

L'anomalia teologica è stata oggetto di numerose speculazioni. I testi sacri di due delle più diffuse religioni della storia, Zoroastrismo e Giudaismo, si riferiscono ad essa in termini di Peccato Originale e conseguente Caduta del genere umano. Secondo la loro versione dei fatti, nella notte dei tempi gli esseri umani si sarebbero macchiati di una gravissima trasgressione delle leggi divine, punita dal Creatore con una sorta di 'declassamento' della loro condizione esistenziale: da un primordiale status di innocenza edenica e consapevolezza della propria immortalità spirituale, all'attuale status di paura, dolore e precarietà. Talune interpretazioni sostengono che la condizione edenica includesse l'immortalità fisica, versione che tuttavia - come vedremo nella seconda parte - non combacia con il mito dell'Albero della Vita rappresentato nel Libro della Genesi.

Il misticismo cristiano tende ad affermare che la condizione riservata dal Creatore agli esseri umani non sia valutabile né comprensibile, dal momento che oltre ad essere Eterno, Immutabile, Incomparabile e Perfetto, Egli sarebbe anche imperscrutabile, ed opererebbe attraverso modi inaccessibili al pensiero umano. Tale motivazione è reputata dai razionalisti come una sorta di ridicola scappatoia dogmatica, ma in realtà - nella sua intelligente umiltà - potrebbe essere la più ragionevole.

La dottrina gnostica motiva l'anomalia umana attribuendo al Dio del cosmo il ruolo di demiurgo, divinità inferiore rispetto al Sommo, Perfetto ed Altero Creatore. Una divinità imperfetta, dunque incapace di plasmare una realtà perfetta, ed anzi artefice di un mondo mal concepito e governato da leggi brutali ed inique.


Immortalità e Longevità

Sappiamo come nel corso dei millenni si siano susseguite dottrine esoteriche, filosofiche e religiose che hanno proposto il concetto secondo cui la mortalità del corpo non coincida - almeno non necessariamente - con quella dello Spirito. Alcune di esse si riferiscono alla sopravvivenza dello spirito come ad un qualcosa da conquistare individualmente, mediante le opere compiute nel corso dell'esistenza terrena; altre lo fanno in senso deterministico: solo chi è stato predestinato dal Creatore sopravvivrà in Spirito. Altre ancora non contemplano alcuna distinzione, asserendo che ogni singolo essere vivente sia in realtà uno spirito più o meno evoluto in rapporto alla propria anzianità ed alla qualità delle opere compiute durante le proprie reincarnazioni terrene.

Sappiamo inoltre che il fine ultimo delle avanguardie scientifiche e tecnologiche nel corso dei secoli sia stato quello di dimostrare che la mortalità del corpo fisico non debba necessariamente essere considerata come un evento inevitabile o permanente, ed in ultima analisi non debba necessariamente coincidere con quella della mente, dei ricordi, della personalità. Anche qui, abbiamo le scienze mediche e farmaceutiche che ufficialmente mirano a prolungare oltre ogni aspettativa la durata della vita umana. Abbiamo un sacco di gente che si è affidata a sistemi basati sulla conservazione dei cadaveri nell'attesa che il progresso scientifico produca soluzioni in grado di curare e resuscitare (criogenesi). Ed ultimamente abbiamo le biotecnologie, l'informatica, la genetica che si propongono di modificare la struttura biologica umana e fonderla con la tecnologia, così da prolungarne la longevità, possibilmente all'infinito.

Comparando i due approcci le differenze saltano immediatamente all'occhio. Mentre l'immortalità descritta dalle dottrine spirituali ha per oggetto una presunta entità immateriale, dunque non subordinata al regime della materia e del tempo, quella a cui fanno riferimento le discipline scientifiche interessa la corporeità, sia essa intesa sotto forma di potenziamento di un organismo biologico, ovvero di un supporto biotecnologico in grado di 'recepire' i 'dati' archiviati nel cervello di una persona defunta, così da farla 'rivivere' sotto nuove spoglie.

Questo ragionamento ha il merito di indirizzarci verso il primo caposaldo della discussione. La vera immortalità - intesa come vita realmente eterna - non potrà mai essere conseguita nel regno della materialità, e ciò a prescindere dai progressi raggiungibili da discipline quali le scienze e la tecnica. La fisica ci insegna che qualsiasi cosa esistente in natura sia ineluttabilmente destinata a deteriorarsi e morire. 
Dal più minuscolo insetto al più imponente corpo celeste, l'entropia non fa sconti: puoi essere molto longevo, sopravvivere centinaia, migliaia o milioni di anni, ma non puoi evitare che un giorno il tempo giunga a riscuotere il conto, trasformandoti in qualcos'altro. Apparentemente quella della biodegradazione ha tutta l'aria di essere una legge di natura, inalterabile e realmente democratica. Si può supporre - e magari augurarsi - che i progressi compiuti dalle discipline di cui sopra riescano un giorno a prolungare la longevità degli esseri umani, ma non è possibile ignorare che si tratterebbe comunque di un'esistenza destinata a scomporsi e concludersi, prima o poi.

"Stando agli studi del biologo ed evoluzionista Steven Austad, anche eliminate le cause di invecchiamento e malattia, l’uomo avrebbe comunque a che fare con un numero di possibilità di morte che ne ridurrebbero la vita media a 'soli' 5.775 anni."
Fonte

Nel caso in cui - per amor di discussione - volessimo accantonare le considerazioni di cui sopra ed ipotizzare il raggiungimento di una innaturale, magica immortalità fisica, dovremmo considerare che colui il quale ne usufruisse, alla lunga si troverebbe a vivere un destino degno dei più allucinanti romanzi di H. P. Lovecraft. Prima o poi la Terra e gli astri si estinguerebbero, e costui si ritroverebbe a fluttuare nello spazio profondo in completa solitudine, nella più fredda e completa oscurità. Destino che rispecchia l'epilogo di una famosa leggenda irlandese di cui parleremo più avanti.

Di conseguenza, possiamo affermare che quando nel corso della storia umana i miti e le scienze hanno parlato di immortalità fisica, lo hanno fatto sempre impropriamente. Il pensiero scientifico e la semplice osservazione della realtà ci dicono che la struttura della materia sia incompatibile al concetto di eternità. Ciò che l'umanità sta inseguendo grazie agli studi scientifici e tecnologici è l'allungamento della longevità; non la vita eterna.

Al contrario, il concetto di immortalità descritto da coloro i quali credono nell'esistenza di uno spirito ci sembra più appropriato quantomeno concettualmente, in quanto presuppone un'immortalità sovrannaturale, ottenuta al di fuori delle leggi della materia e del tempo.

Molti articoli pubblicati su questo blog hanno cercato di sbirciare oltre il velo della materialità; il tema dello Spirito/Coscienza è così ampio e complesso da apparire inesauribile. In questa sede però punteremo i riflettori sulla nostra componente materiale, animale, e sulla sua più che comprensibile paura dell'oblio. Era inevitabile che l'infausto destino riservato alla persona speciale che vediamo quotidianamente riflessa nello specchio animasse le gesta - e le fantasie - di tanti uomini, i quali hanno votato le loro esistenze alla ricerca di un elemento che fosse in grado di imbrigliare le leggi di natura, spezzare il ciclo del deterioramento e ritardare la morte fino ai confini del tempo.


Benedizione o Maledizione?

Tuttavia, prima di inoltrarci nei miti sorti intorno alla ricerca della vita (quasi) eterna, vogliamo sottolineare come esista una nutrita scuola di pensiero che si oppone al perseguimento dell'immortalità fisica, avendo sviluppato un'idea pessimistica circa le conseguenze che una simile conquista potrebbe produrre. Il filosofo Jean Baudrillard non usò perifrasi quando affermò che: "... ciecamente sogniamo di superare la morte attraverso l'immortalità anche se da sempre l'immortalità ha rappresentato la peggiore delle condanne, il destino più terrificante." Il giornalista Herb Caen più ironicamente considerò che: "l'unica cosa sbagliata dell'immortalità è che tende ad andare avanti all'infinito."

Se inquadrato in ottica antropologica e sociologica è innegabile che l'eventuale conseguimento di un'immortalità 'di specie' potrebbe produrre conseguenze nefaste per l'equilibrio della comunità umana.

"Con la limitazione delle nuove nascite, la nostra civiltà cesserebbe di rinnovarsi e di produrre nuove idee. I vivi farebbero di tutto per impedire ulteriori nascite; le loro idee ed i vecchi oligopoli si cristallizzerebbero. Questo, vedete, sarebbe una vera maledizione per l'intera l'umanità."
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Anche spostando il punto di vista dalla società al singolo individuo, ed elaborando il concetto fino alle sue estreme conseguenze, ci ritroviamo di fronte ad una serie di potenziali prospettive non molto allettanti.

"Immagina di dover assistere all'invecchiamento ed alla morte di tutti coloro che ami, mentre tu resti perennemente giovane. Come potrebbe una persona sperare di coltivare un qualsiasi attaccamento emotivo e personale verso un altro essere umano? A che punto smetterebbe di preoccuparsi? L'apatia sarebbe una cosa positiva o negativa?"
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Quello dell'apatia, con conseguente trasformazione o soppressione delle qualità connaturate alla nostra essenza umana e mortale, è un tema molto gettonato nelle discussioni filosofiche circa le implicazioni prodotte da un'ipotetica vita (quasi) eterna.

"Senza una scadenza esistenziale, smetteresti di fare. La percezione del tempo tende ad accelerare con l'invecchiamento. Chiunque con 10.000 anni di età vivrebbe il tempo in maniera estremamente più veloce rispetto al proprio prossimo, e ciò lo renderebbe del tutto separato dal resto del mondo. Il tempo per costui non significherebbe alcunché. La sua mente si indebolirebbe progressivamente fino a trasformarsi in una sorta di roccia, una cosa inerte, che resta immobile milioni e milioni di anni."
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Si tratta del primo dato sorprendente emerso durante questo approfondimento: le persone che temono e/o disprezzano la possibilità di prolungare indefinitamente la durata dell'esistenza fisica sembrano essere altrettanto numerose di quelle che invece farebbero di tutto per ottenerla. I detrattori sostengono che un simile destino alla lunga si rivelerebbe doloroso ed orribile ben oltre i limiti dell'umana immaginazione. Dunque è proprio da questa prospettiva che vogliamo iniziare il nostro percorso; dall'immortalità intesa come una maledizione.

L'Ebreo Errante

Il mito più conosciuto che attribuisce all'estrema longevità una connotazione negativa è quello dell'Ebreo Errante. La leggenda cristiana narra che un uomo ebreo, reo di avere oltraggiato Gesù durante l'evento della Passione, sarebbe stato maledetto dal Messia con le seguenti parole: "attenderai fino al mio ritorno." La maledizione avrebbe reso quell'uomo immortale, condannandolo a vagare senza scopo né riposo sulla terra fino alla Seconda Venuta del Cristo.

"Le caratteristiche dell'errante variano a seconda delle differenti versioni del racconto leggendario: a volte si dice che fosse un antico ciabattino o mercante di Gerusalemme; a volte una guardia dei sommi sacerdoti oppure il custode del palazzo di Ponzio Pilato, o ancora un romano-giudeo. Per molti comunque incarnerebbe colui che, in ultima istanza, non avendo accolto, o comunque soccorso il Cristo sofferente, fu costretto a vagare per sempre."
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E' interessante notare come il mito dell'Ebreo Errante tenda a confondersi con la realtà storica. Il cronista medievale inglese Roger of Wendover riferì nel suo Flores Historiarum che un arcivescovo della Grande Armenia in visita in Inghilterra nel 1228, avesse affermato che in quel paese vivesse un uomo chiamato Cartaphilus - successivamente ribattezzato con il nome di Joseph - che sosteneva di essere stato il custode del palazzo di Ponzio Pilato e di avere schiaffeggiato Gesù mentre si dirigeva verso il Calvario, sollecitandolo ad accelerare il passo. Secondo l'uomo, Gesù gli aveva risposto: "Vado, ma tu attenderai fino al mio ritorno." E da quel momento Cartaphilus aveva smesso di invecchiare ed ammalarsi. Successivamente si era convertito al Cristianesimo ed aveva intrapreso sotto il nome di Joseph una vita irreprensibile nella speranza - infine - di essere salvato. Un'integrazione italiana della storia narra che il nome dell'Errante successivamente fosse stato ancora modificato in Giovanni Buttadeo.

Il mito proseguì a confondersi con il resoconto storiografico grazie ad uno dei più famosi astronomi e astrologi italiani del XIII secolo, nonché "il più autorevole trattatista di astrologia del Medioevo italiano." Si chiamava Guido Bonatti, e riferì di un passaggio dell'Ebreo errante presso la città di Forlì, nel 1267.

Una Cronaca rimata del XIII secolo realizzata da Philippe Mousqkes, arcivescovo di Tournai, fece eco al racconto di Roger of Wendover confermando la presenza dell'Errante in Armenia, nel XIII secolo.

Nel XVI secolo l'Ebreo Errante ricomparve, citato in una lettera attribuita a Chrysostomo Dedalaeo Vestphalo, nella quale viene narrato come Paul af Eitzen, vescovo di Schleswig, in Danimarca, affermò che nel 1547 avesse incontrato l'Errante in una chiesa di Amburgo ed avesse intrattenuto con lui una lunga conversazione. In quell'occasione il nome dell'Errante era Ahasvero (o Assuero, nome persiano citato anche nel Libro di Ester della Bibbia).

Circa un secolo più tardi la leggenda fu codificata in un pamphlet di quattro pagine intitolato Kurtze Beschreibung und Erzählung von einem Juden mit Namen Ahasverus (Descrizione di Kurtze di un Ebreo di Nome Assuero), secondo alcuni stampato a Leida nel 1602 da un certo Christoff Crutzer. Tuttavia non esistono prove dell'esistenza di una tipografia presso Leida in quell'anno. Successivamente il libretto fu accusato di strumentalizzare la leggenda per propagandare sentimenti di antisemitismo. Infatti il mito fu accostato metaforicamente alla condizione delle genti ebraiche, iniziata con la presunta condanna divina che li disperse nel mondo come punizione per la crocifissione del Cristo.

Una variante della storia fu applicata anche a Longino, il soldato che trafisse il costato di Gesù mentre era appeso alla croce, e la cui lancia nel mito diventò una potente reliquia cristiana. Ancora un'altra versione dichiara che l'Errante fosse il servo Malco, al quale San Pietro mozzò un orecchio nel giardino del Getsemani (Giovanni 18:10), e che in seguito fu condannato a vagare fino alla Seconda Venuta.

Attualmente il mito dell'Ebreo Errante è più vivo che mai, dal momento che numerose opere artistiche e di fiction continuano a citarlo regolarmente. Se il racconto fosse vero, questo personaggio starebbe ancora vagando in mezzo a noi, nell'attesa del ritorno del Messia.

Miti Classici

Torniamo indietro nel tempo fino alla Grecia classica, per dare un'occhiata a quelli che probabilmente furono i primi miti che attribuirono al concetto di immortalità un'accezione negativa.

Le storie di personaggi mitologici quali Ade, Sisifo e Prometeo testimoniano come in effetti molta mitologia greca sollevi la questione se l'immortalità sarebbe una cosa realmente positiva per gli esseri umani. Il destino, il caso, o anche il sadismo degli deisono in grado di tramutare in un istante la più desiderabile delle benedizioni nella più tragica delle maledizioni.

Il mito greco che meglio incarna questo concetto è quello di Eos e Titone. La leggenda narra che Titone - figlio di Laomedonte e fratello di Priamo - fosse un giovane talmente bello da fare innamorare l'Aurora - la bella ed eternamente giovane Eos - la quale lo rapì conducendolo in cielo, e lo scelse come sposo. La dea ottenne per lui da Giove il privilegio dell'immortalità, ma si scordò di richiedere anche l'eterna giovinezza; fu così che Eos, eternamente giovane, fu condannata a restare unita per sempre a Titone, eternamente vecchio.

Utnapishtim

Il mito di Eos e Titone ricorda la storia di Utnapishtim, personaggio dell'Epopea di Gilgamesh, che ricevette dagli dei il dono dell'immortalità, ma non quello dell'eterna giovinezza. Torneremo sul Gilgamesh nella seconda parte dell'articolo.

La Sibilla Cumana

Identiche similitudini riscontrabili anche nel mito della Sibilla di Cuma. Nell'antichità il titolo di Sibilla Cumana spettava alla somma sacerdotessa dell'oracolo di Apollo (divinità solare) ed Ecate (dea lunare pre-ellenica), oracolo situato in una località della Magna Grecia chiamata Cuma, nei pressi del Lago d'Averno, in una caverna conosciuta come Antro della Sibilla. L'importanza della Sibilla nel mondo romano era pari a quella del celebre oracolo di Delfi in Grecia.

Secondo il mito, la Sibilla di Cuma grazie ai suoi poteri attirò su di se l'attenzione di Apollo, il quale in cambio di una notte con lui le offrì la possibilità di esprimere un desiderio. La donna domandò in dono tanti anni di vita quanti granelli di sabbia fosse stata capace di stringere nelle proprie mani. La richiesta indispettì il dio del sole, il quale decise di esaudire in modo beffardo il desiderio, donandole la vita eterna ma non l'eterna giovinezza. Con il trascorrere del tempo la Sibilla invecchiò, perse sostanza fisica e si ridusse lentamente ad un piccolo e fragile corpo immortale, così minuscolo da poter vivere in un vaso. Il suo contenitore fu appeso ad un albero; la Sibilla non aveva bisogno di cibo o acqua, in quanto impossibilitata a morire di fame o di sete. Per cui fu lasciata in quel vaso a fare da bersaglio allo scherno dei bambini: "Sibilla, Sibilla, perché non ci dici che cosa desideri?" Al che lei replicava debolmente sempre con le stesse parole: "Vorrei tanto morire."

La Punizione di Ashwathama

Il Mahabharata (traduzione dal sanscrito: Grande Epopea della Dinastia Bharata) è uno dei due grandi poemi epici sanscriti dell'antica India (l'altro è il Ramayana). Si tratta di un'importante fonte di informazioni circa lo sviluppo dell'Induismo tra il 400 aC e il 200 dC. Dagli induisti è considerato sia un testo sulla legge morale che una fedele documentazione storiografica. L'epopea narra della lotta per la conquista del potere tra la famiglia Kaurava e la famiglia Pandavas. Il poema è composto da quasi 100.000 distici, pari a circa sette volte la lunghezza dell'Iliade e dell'Odissea messe insieme. Sebbene sembri improbabile che sia stato scritto da una singola persona, la sua paternità è attribuita al saggio Vyasa, che nel testo stesso appare come personaggio secondario nelle vesti del nonno comune alle due famiglie in guerra.

Il Mahabharata è talmente lungo, ed ha una trama talmente intricata, da scoraggiare la maggior parte dei lettori occasionali. Tutto ciò perché si tratta di un'epopea stracolma di personaggi, ognuno dei quali è correlato all'altro in moltissimi modi diversi. Tra i personaggi secondari della saga vi è il potente guerriero Ashwatthama.

Ashwatthama era nato con una gemma incastonata nella fronte, una pietra magica da cui scaturivano tutte le sue straordinarie abilità militaresche. Era stato allevato ed istruito affinché diventasse un valoroso guerriero ed arciere. Durante la guerra del Mahabharata, Ashwatthama combatté nel campo del Kaurava al fianco del proprio padre. Successivamente, una serie di tragici equivoci in larga parte scaturiti dal suo cieco odio nei confronti della stirpe dei Pandavas, lo indusse ad usare la terribile arma chiamata Brahmastra per uccidere il figlio non ancora nato dell'ultimo discendente dei Pandavas. In tal modo pose fine all'antichissimo lignaggio dei Pandavas.

Infuriato a causa della perdita provocata da Ashwatthama, il Signore Krishna maledisse il guerriero, gli strappò la gemma dalla fronte e lo condannò a vagare sulla Terra all'infinito, gravato dal peso dei propri peccati (secondo talune versioni, perennemente ammalato di lebbra), senza mai poter ricevere alcun amore né compassione. La leggenda narra che da quel funesto giorno Ashwatthama vaghi sulla Terra in cerca di salvezza.

Come nel caso dell'Ebreo Errante, anche qui il mito tende a confondersi con la realtà. E' infatti noto come nei secoli successivi numerose persone abbiano affermato di aver incontrato Ashwatthama in carne ed ossa. Un medico residente nel Madhya Pradesh - stato federato dell'India centrale - testimoniò di avere avuto un paziente con una ferita incurabile sulla fronte. Nessun medicamento faceva effetto su quella ferita. Quando il medico iniziò a manifestare uno spiccato interesse accademico verso quella strana ferita incurabile, il paziente fuggì e sparì senza lasciare traccia.

Una tradizione locale afferma che vicino alla corporazione municipale di Burhanpur vi sia un villaggio contenente un maniero chiamato Asirgarh. Secondo la gente del posto, ogni mattina Ashwatthama in persona si recherebbe presso il maniero per depositare dei fiori alla base di una statua di Shiva. Altri resoconti - infine - affermano che Ashwatthama viva ancora oggi tra le tribù stanziate ai piedi dell'Himalaya.

Nuovamente un mito sull'immortalità che sottolinea a chiare lettere come l'ambiguo 'dono' dell'immortalità fisica possa diventare una tragica maledizione se coniugato alla volubilità del fato e degli dei ed all'ignoranza degli esseri umani.

Questa pericolosa incompatibilità è stata resa in modo magistrale da un un racconto piuttosto recente, non mitologico ma profondamente archetipico; entrato di forza nell'immaginario collettivo sotto forma di perfetta rappresentazione degli impulsi stanti alla base della brama di vita eterna, e delle conseguenze - spesso sottovalutate - che una simile conquista potrebbe comportare.

Il Ritratto di Dorian Gray

Stiamo parlando de Il Ritratto di Dorian Gray, primo ed unico romanzo di Oscar Wilde, pubblicato per la prima volta nel numero di luglio del 1890 sulla rivista mensile inglese Lippincott.

Il romanzo - ambientato nella Londra vittoriana del XIX secolo - narra di Dorian Gray, giovane di bell'aspetto che si lascia plagiare dalle idee edonistiche del mecenate Lord Henry Wotton, e diventa talmente schiavo del proprio narcisismo da sprofondare in una spirale di meschinità ed innaturalità.

Wotton e Dorian si conoscono mentre quest'ultimo sta posando come modello per un ritratto del pittore Basil Hallward. L'immagine 'immortalata' del dipinto è talmente splendida da suscitare l'invidia di Dorian, incapace di accettare che quella figura sia destinata a restare eternamente giovane e bella, mentre egli - controparte originale vivente - dovrà invecchiare e sfiorire.

"Io dovrei restare eternamente giovane, mentre è quell'immagine che dovrebbe invecchiare! Darei la mia anima affinché ciò accadesse."

In altre parole, corrotto dalla propria ossessione per la bellezza e la giovinezza, Dorian giunge a stipulare un patto col diavolo per poter rimanere eternamente giovane e bello; sarà il suo ritratto a mostrare i segni della decadenza fisica e corruzione morale.

Dopo aver ceduto la propria anima al diavolo Dorian acquisisce il dono dell'immortalità. Non invecchia e sembra essere immune da tutte le malattie ed infezioni. Tuttavia la sua progressiva corruzione morale, combinata all'influenza nefasta del luciferino Lord Henry, rende il giovane una persona sempre più spregevole.

Il concetto di immortalità ne Il Ritratto di Dorian Gray ha una connotazione estremamente negativa; si tratta di qualcosa che sulle prime appare inebriante e potente, la quale tuttavia con il trascorrere del tempo rivela alcune inevitabili controindicazioni. Che cosa resta, dopo aver vissuto fino in fondo qualsiasi possibile emozione? Solo apatia, noia, ed un profondo senso di colpa a causa delle scelte compiute.

L'atto finale del romanzo rappresenta il sincero desiderio di rinascita; di ricominciare per non commettere gli stessi errori. Ma questo proposito è inattuabile; non esiste alcuna possibilità di redenzione. Dorian è ormai un corpo perfetto ma completamente svuotato dall'assenza di quella Coscienza che volle usare come merce di scambio, ed il finale della storia non lascia spazio ad alcun ottimismo.

Jack o'Lantern

Concludiamo questa rassegna di miti 'maledetti' con un'antica leggenda druidica diventata fiaba irlandese e successivamente icona della (tristemente) popolare festa di Halloween. Stiamo parlando della storia di Stingy Jack, fabbro irlandese di un'epoca imprecisata, entrato nella leggenda con il nome di Jack o' Lantern.

Stingy Jack era un uomo ormai condannato alla dannazione a causa dei propri vizi e del proprio animo avido e cinico. Un sera il diavolo si presentò nella locanda in cui Jack era solito ubriacarsi, per reclamarne l'anima. Come ultimo desiderio Jack chiese astutamente al diavolo di trasformarsi in una moneta con cui avesse potuto pagarsi un'ultima bevuta. Quando il diavolo acconsentì, Jack lestamente infilò la moneta nel proprio borsello, sigillandolo con una croce d'argento, cosicché il diavolo non potesse più uscirne. In cambio della libertà il diavolo gli promise di ritardare di una decade la 'riscossione' della sua anima; soddisfatto, Jack lo lasciò andare.

Dieci anni più tardi il diavolo si ripresentò a reclamare il dovuto, e stavolta Jack lo raggirò chiedendogli di raccogliere una mela da un albero, prima di carpirgli l'anima. Il diavolo si prestò nuovamente al gioco ed acconsentì. Al che Jack incise astutamente una croce sul tronco dell'albero, in modo tale che il diavolo restasse intrappolato sulla sua cima, ed impossibilitato a ridiscenderne. Ancora una volta Jack ottenne un beneficio come prezzo per cancellare l'incisione e lasciare andare il diavolo. Il prezzo da pagare fu l'impegno a rinunciare definitivamente alla sua anima, risparmiandogli la dannazione eterna. Il diavolo accettò.

Anche qui la morale della storia ci mette di fronte ai limiti del pensiero umano. Il furbo (ma non troppo) Jack infatti non aveva pensato proprio a tutto. Quando giunse il suo momento andò a bussare alle porte del Paradiso, ma dati i suoi trascorsi non gli fu permesso di entrare. Disorientato da questa condizione di 'morto vivente' Jack decise allora di presentarsi all'Inferno, ed a quel punto il diavolo gli rammentò il patto e gli negò l'ingresso, condannandolo ad errare per sempre sotto forma di anima tormentata, in un perenne limbo fatto di solitudine, freddo ed oscurità. Di fronte alle sue rimostranze il diavolo - mosso a compassione - gli fece dono di un tizzone ardente, che Jack posizionò all'interno di una rapa (nelle versioni successive diventò una zucca). Da quel giorno Jack 'o' Lantern iniziò un infinito girovagare alla disperata ricerca di qualcuno o qualcosa che fosse in grado di donargli l'eterno riposo.

Ciascuna di queste storie ha il merito di rimarcare un aspetto sottovalutato da chiunque sogni di conquistare l'immortalità fisica. Per quanto evoluti, intelligenti e furbi (ma non troppo, proprio come Jack) riteniamo di essere, noi umani siamo irreparabilmente ignoranti di fronte al Grande Mistero della vita. In altre parole nessuno può garantirci che ciò che tendiamo a considerare come la più munifica delle benedizioni, possa rivelarsi in realtà l'esatto opposto, cioè la più pericolosa ed irreparabile delle maledizioni.

Non c'è Problema

Aspetto - questo - che è stato sottovalutato da un ampio insieme di persone, le quali hanno votato la loro esistenze alla ricerca della chiave per vivere in eterno, o per andarci vicino. Nella seconda parte dell'articolo ci occuperemo di queste persone, dei miti sorti intorno alle loro opere, e delle nozioni che hanno lasciato in eredità ai posteri.

Fonte: www.anticorpi.info

fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it/

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