martedì 2 aprile 2019

Ilse Koch, la cagna di Buchenwald


Mi chiamavano cagna.
Mi chiamavano strega. Mi chiamavano donnaccia. Io ero solo me stessa. Libera di essere crudele, sadica, perversa, ninfomane, di fare paura.
Avevo la loro vita nelle mie mani e se solo avessi voluto, avrei potuto schiacciarli tutti sotto i miei stivali di pelle, sempre lucidi, sempre in ordine. Mosche, vermi striscianti, scarti dell’umanità, inutili creature che avevamo il dovere e l’onore di sterminare, per rendere migliore l’Europa, il mondo. Li guardavo camminare, pallidi, denutriti, sporchi, affamati. Disprezzavo quegli occhi vuoti, impauriti, quegli sguardi privi di vita prima della morte, quel loro incedere lento e timoroso, pronti a trasalire ad ogni rumore, a farsi piccoli-piccoli per mettersi al riparo da ciò che li aspettava: lo sterminio.
Per me erano nulla, un obbligo quotidiano, un passatempo alla noia del campo. La loro sopravvivenza non mi riguardava. Mi accorgevo di quelle invisibile presenze solo quando li vedevo soffrire, inginocchiati nella polvere o nel fango, a un passo dalla fine, con quelle bocche spalancate in un grido silenzioso che li avrebbe traghettati nell’oblio. Mi piaceva essere la padrona del loro destino. Provavo un piacere sottile che sentivo crescere di giorno in giorno, alimentato da quel sadismo latente che albergava in me e che a Buchenwald, accanto a mio marito ebbi la possibilità di liberare. Non avevo limiti, non conoscevo pietà, perché nessuno mi avrebbe fermata, nessuno mi avrebbe convinto che davanti a me c’erano esseri umani. Per me non lo erano, non lo sono mai stati. Erano solo ebrei, zingari o prigionieri politici, creature imperfette e inutili, cancro dell’umanità, con quelle loro anonime divise, luride e strappate, con i segni del dolore impressi sui volti scheletrici e noi la razza superiore, perfetta, quella che avrebbe dominato il mondo. Il mio nome era Ilse Koch; per chi mi conobbe e riuscì a sopravvivere, ero la “iena di Buchenwald”. 



Fino al giorno del mio matrimonio fui solo una brava ragazza, una qualunque che cercava di emergere. Nacqui a Dresda nel 1906. Il mio nome da nubile era Köhler. Ero bella, piacevo a molti ragazzi della mia età, ero intelligente e questo era motivo di lodi da parte degli adulti. I miei genitori erano persone semplici, contadini abituati a lavorare molto, affettuosi e generosi, che cercarono di farmi crescere insegnandomi i valori che per loro erano importanti. Ci riuscirono per un po’, fino a quando a 15 anni decisi che sarei stata padrona della mia vita e del mio destino. Lasciai la scuola e andai a lavorare. Mi adattai a fare l’operaia. Dopo qualche tempo trovai impiego in una biblioteca, ma aspiravo ad altro. Mi arruolai nelle SS, dopo aver seguito per lungo tempo la propaganda degli uomini del partito. Fui colpita dalle loro parole, dalle idee che con forza esprimevano, dall’affermazione della razza ariana come superiore. Un giorno fui notata da Heinrich Himmler, capo della Gestapo, che oltre alla mia avvenenza e perfezione fisica, vide in me quelle qualità che ogni donna ariana avrebbe dovuto avere. All’epoca ero sorvegliante e segretaria nel campo di concentramento di Sachesenhausen, situato nella zona di Berlino. Le mie indubbie capacità di comando e di gestione del “materiale umano” che arrivava al campo, mi permisero di emergere e di essere selezionata per formare con Karl la coppia perfetta, quella che avrebbe contribuito con il giusto atteggiamento a fare grande la Germania. Lui era lo sposo ideale: autoritario, capace, fiero, affascinante e giustamente crudele. Nonostante la sua giovane età, aveva già diretto, con grande maestria, i campi di Columbia-Hans, Lichtenburg, Esterwegen Sachesenhausen, dove i nostri destini si incrociarono. Ero alle sue dipendenze. Mi affascinava la forza che esprimeva compiendo anche la più banale delle azioni, e la sua capacità di essere padrone della situazione sempre. Per me fu un privilegio grande entrare a far parte dell’immenso disegno del Reich, diventando sua moglie. Nel 1936 ci sposammo. Fummo trasferiti a Buchenwald già a partire al 1° agosto 1937. Ero la moglie del comandante, non dovevo lavorare ma sfornare piccoli ariani, come voleva il regime. Grazie alla mia posizione, avevo il potere assoluto su tutti quelli che erano internati lì: vita o morte, a me la decisione.



Himmler diceva che insieme incarnavamo l’essenza del partito, la “coppia modello” che tutti avrebbero temuto. Al campo Karl ottenne la promozione a colonnello. Non avevamo a disposizione le camerte a gas, ma nonostante questo l’aspettativa di vita per un prigioniero, dal giorno del nostro arrivo, scese a circa tre mesi. Morivano per il tropo lavoro, per gli stenti, per le malattie o per i nostri capricci.
Ricordo i primi giorni: mi sentivo ebbra di potere. Prendemmo possesso del nostro alloggio, e degli uffici, impartendo orini precisi per ogni cosa. Tutto doveva essere come volevamo noi. Karl mostrò subito il suo vero volto. Godeva nel brutalizzare gli internati. Non esitava a farli uccidere a calci e pugni perché avevano incrociato il suo sguardo oppure avevano osato posare il loro su di me. Era solito girare con un frustino modificato con lame di rasoio. Si divertiva a veder utilizzare lo schiaccia pollici o a marchiare con ferri caldi chi gli capitava a tiro. Usava i cani per uccidere o ferire. Mi resi conto subito che non mi disturbava assistere a scene di violenza. Al contrario ne ero compiaciuta, attirata, tanto che comincia anche io a fare le stesse cose. Da brava donna del Reich cominciai a sfornare figli. Durante la permanenza a Buchenwald diventai madre per tre volte: nel 1938 nacque Artvin, nel 1939 Gisela, nel dicembre del 1940 Gudrun, che però ci lasciò nel febbraio del 1941. La noia di badare ai piccoli, il non poter lavorare, mi spinsero ad impiegare il mio tempo in modi alternativi. Se non avevo nulla da fare, mi divertivo a girare per il campo con la frusta in mano. Sceglievo qualcuno a caso, il detenuto più lento, oppure quello con la divisa meno logora; non c’era una discriminante che mi spingesse a preferire uno piuttosto che un altro. Lo facevo e basta, questione di un istante e colpivo, per soddisfare il desiderio di procurare dolore, per sentire la carne lacerarsi, per guardare le vesti cadere a terra a brandelli, intrisi di sangue. Uno, due, cinque, dieci colpi, mi fermavo solo quando il braccio mi faceva male e così, coperta di sudore e livida in volto, mi sentivo appagata. Altre volte passeggiando con qualcuno dei soldati, davo loro l’ordine di uccidere un prigioniero a caso, a suon di percosse. Lo avevo imparato da Karl. Il nostro matrimonio era speciale anche per questo, per quell’anima nera che condividevamo, fuori e dentro casa. E proprio nel nostro nido potevamo sfogare i nostri più inconfessabili istinti. Mi piaceva organizzare orge saffiche con le mogli degli altri ufficiali, per poi passare in un’altra stanza a consumare amplessi promiscui con gli ufficiali stessi, anche una dozzina alla volta. Ero insaziabile e Karl non mi dava limiti, mai.



Riservavo un trattamento particolare alle donne incinta. Mi provocavano un senso di fastidio. Con quale diritto procreavano? Mettevano al mondo altri esseri imperfetti. Materiale di scarto, con i loro ventri gonfi, si aggiravano per il campo e quando le incrociavo mi piaceva farle attaccare dal mio pastore tedesco.
Il senso di potere cresceva in me ogni giorno. Era piacevole suscitare tanta paura, avere su di me sguardi di terrore e di ammirazione. Mi sentivo bella, desiderata, non solo da mio marito. La vita agiata e piena di ricchezze che conducevamo, era in netto contrasto con la morte e la disperazione che trovavamo fuori dalla porta di casa. Me ne preoccupavo? Assolutamente no, anzi, organizzavo fastose feste per i nostri amici e conoscenti. Mi piaceva pensare alla sofferenza di quei miserabili a pochi metri da noi.
Le stranezze con me non avevano limite. Nei giorni degli arrivi dei convogli uscivo dal nostro alloggio a seno nudo o in reggiseno. Se qualcuno aveva il coraggio di girarsi a guardarmi, lo facevo massacrare a calci e pugni davanti a tutti. Mi piacevo, ero bella, elegante, profumata, in quel mare di carcasse umane e se una prigioniera appena arrivata era più bella di me, me ne occupavo direttamente.
Avevo una specie di ossessione per i corpi. Mi aggiravo nelle baracche durante le visite per guardare uomini e donne nudi, per scoprire se c’era qualcuno che valeva la pena di osservare, di mettere alla prova, se ci fosse chi era tatuato. Ero alla perenne ricerca di materiale umano. Uno dei miei svaghi consisteva nell’abbellire il nostro alloggio, con quadri e paralumi che facevo confezionare alle detenute. Le costringevo ad usare lembi di pelle umana, tatuati e non. Sceglievo un candidato, uno qualsiasi, fra zingari e prigionieri di guerra russi. Erano i miei preferiti, non importava se fossero vivi o morti. La nostra casa era bellissima e Karl apprezzava il mio estro creativo.
Un giorno venni a sapere che un medico ad Auschwitz collezionava Tsantsa, cioè teste rimpicciolite dei prigionieri. L’idea ami sembrò davvero bella, tanto da decidere di provare immediatamente per vedere il risultato. Infondo il materiale a mia disposizione era illimitato. Non fu facile, dopo diversi tentativi ottenemmo un risultato davvero soddisfacente. Soprammobili particolari che mio marito accolse con entusiasmo. Le voci sulle nostre stranezze, sugli eccessi a cui eravamo soliti abbandonarci, uscirono ben presto dal campo. Arrivarono al Reich, che cominciò una lunga indagine sulla nostra condotta. Fummo convocati più volte per rispondere di atti di eccessiva brutalità, di appropriazione indebita dei beni sequestrati ai prigionieri, infamia, corruzione, ubriachezza durante il servizio, molestie sessuali verso prigionieri e soldati, omicidio. Nel 1941 tutto cambiò improvvisamente, il nostro regno del male cominciava a vacillare. Dopo la morte della nostra piccola Gudrun, decisi di ricominciare a lavorare. Assunsi l’incarico di capo supervisore del reparto femminile del campo. A settembre Karl fu trasferito al lager di Majdanek, mentre le indagini su di noi continuavano. Io restai a vivere con i bambini nel nostro alloggio. Durante l’inchiesta emersero molte prove a carico di mio marito e ovviamente mio. Ma la questione aperta era per il momento solo con lui, aveva disonorato la divisa. Nell’agosto del 1942 la sua situazione peggiorò ulteriormente: da Majdanek fuggirono 86 prigionieri di guerra russi. Fu trasferito senza preavviso a Berlino, dove assunse un incarico minore. Alle altre accuse si era aggiunta quella di negligenza criminale. Nel 1943 fummo arrestati. Io venni portata a Weimar, mentre ebbe inizio il processo contro Karl. Il tribunale militare lo giudicò colpevole di tutti i reati cointestati e lo condannò a morte per aver infangato il corpo delle SS. Fui informata della sua fucilazione il 5 aprile 1945. La sentenza fu eseguita a Buchenwald: là dove tutto era iniziato, finì. Una settimana dopo gli alleanti entrarono al campo, liberandolo. Io fui scarcerata, all’epoca dei fatti ero solo la moglie del comandante del campo, non avevo responsabilità militare. Andammo a vivere per un po’ a Ludwigsurg, ma la mia libertà durò poco. Il 30 giugno 1945 gli alleati mi trovarono e mi arrestarono come criminale di guerra. Fui processata a Dachau. Molti testimoni si susseguirono in aula, alcuni scrissero addirittura 50.000 persone. Erano ancora carcasse per me, denutriti, segnati nel corpo e nell’anima. Furono anche presentate delle prove fotografiche, che immortalavano mucchi di cadaveri nel campo. 



«Bugie! Tutte bugie!» gridai. Come osavano processarmi? Era mio dovere obbedire, fare quello che ho fatto. Era il disegno del Reich e noi eravamo una coppia perfetta. La sentenza arrivò nel 1947: ergastolo. Non ebbi un attimo di esitazione, mai un cedimento, se non quelli simulati. Non dissi nulla, mantenni la mia solita espressione fiera. Ero innocente, non avevo fatto altro che seguire gli ordini, mi ero occupata del materiale umano che arrivava con frequenza al campo. A sorpresa la mia pena fu commutata in 4 anni. Una volta scarcerata nel 1949 cercai di scomparire, ma la pressione dell’opinione pubblica e l’indignazione popolare per quel trattamento privilegiato, mi riportarono in carcere. Durante la detenzione conobbi un recluso, del quale rimasi incinta. Un caso? Una tattica? Forse speravo di rimandare il processo che stava per iniziare a mio carico. Ma la gravidanza non bastò. Fui condannata di nuovo all’ergastolo.
Partorii ad Aichach, ma non vidi mai mio figlio se non per pochi istanti. Gli diedi il nome di Uve Köhler. Quella condizione di forzata detenzione mi logorò lentamente. Una mattina nel 1967 presi una decisione definitiva. Così, senza dire nulla a nessuno, scrissi una lettera a mio figlio. Gli raccontai chi ero, della mia posizione nel Reich, della stima del grande Himmler, di Karl, degli anni passati insieme e delle sue sorelle. Non avevo rimorsi, avevo fatto tutto quello che volevo e lui doveva saperlo. Sua madre era stata una grande nazista, una donna che incuteva timore. Pochi istanti dopo aver finito, presi le lenzuola, feci un cappio, lo legai alle sbarre e me lo misi al collo. Mi lasciai penzolare. Pochi minuti, sola, con gli occhi pieni di lacrime, la bocca spalancata in un grido silenzioso che avevo visto mille volte sui volti terrorizzarti delle mie vittime. Che stano, pensai a loro in quel momento, pensai alle frustate, al rumore della carne lacerata, agli incontri orgiastici, alla depravazione, alle risate che ci venivano dal cuore ogni volta che vedevamo la sofferenza di qualcuno. Il buio. Finì così la mia vita, quella della cagna di Buchenwald e con me il mio regno del terrore. Dopo la fine della guerra si parlò a lungo di ciò avevo fatto. In tanti mi avrebbero ricordata, nel male, mai nessuno mi avrebbe dimenticata.

Rosella Reali
Bibliografia

Massimiliano Livi (2008). "Ilse Koch". In Pugliese, Elizabeth; Hufford, Larry. War Crimes and Trials: A Historical Encyclopedia, from 1850 to the Present. Santa Barbara: ABC-CLIO.

Gutman, Israel, ed. (1995). Encyclopedia of the Holocaust. Macmillan.

Lacqueur, Walter; Baumel, Judith Tydor, eds. (2001). The Holocaust Encyclopedia. Yale University

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

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