giovedì 11 ottobre 2018

Margherita, l'amore di Dolcino


Muoio davanti ai tuoi occhi pieni di lacrime e fuoco, muoio straziata, ma non pentita.
Muoio oggi condannata da un tribunale ingiusto che si è allontanato dalla retta via, che non ha saputo comprendere la nostra resistenza, la forza che ci ha uniti tutti, manipolo di disperati con un’unica fede, quella in un Dio giusto e benevolo, capace di essere severo con i propri figli ma anche magnanimo.
Muoio per averti amato, fino all’ultimo giorno, per esserti stata accanto nella fuga, al freddo, calpestando una terra amica e nemica che non ci ha saputo accogliere e proteggere dall’avanzata dell’esercito.
Muoio perché mi hai conquistata, con le tue parole, con la tua forza, con il tuo animo puro e nostalgico.
Muoio per te, perché un giorno chi racconterà la nostra storia di resistenza, di sofferenza e di tenacia, parli di noi come coloro che non si sono piegati ai soldati di Avogadro, che hanno sconfitto la paura e la fame per lungo tempo.
Muoio per te Dolcino, perché hai saputo scuotere il mio animo sopito e ora resterò accanto a te nel tempo. Io, Margherita Boninsegna, sarò per sempre la donna che con te ha combattuto contro la dissolutezza della Chiesa di Roma.


Sono nata in un giorno qualunque, probabilmente nella seconda metà del XIII secolo. Il luogo non importa, forse Trento, forse Arco. La sola cosa che conta è la mia storia dopo l’incontro con te, Dolcino.
È il 1303. Dolcino è nella zona trentina, dove io vivo, in predicazione. Per caso il mio sguardo si incrocia col suo. Le sue parole ardenti conquistano il mio cuore. È a capo degli Apostolici, ordine fondato da Gherardo Segarelli, morto sul rogo qualche anno prima. Predica con ardore una vita di povertà, di rinuncia a qualsiasi bene terreno, alla casa stessa. Predica la santità, il distacco da tutto ciò che di materiale può distogliere gli uomini dalla vicinanza con Dio, come i primi apostoli. Predica con parole di fuoco contro la dissolutezza della Chiesa e degli ecclesiastici. Un uomo semplice, appassionato, dalla lunga barba incolta, dagli occhi profondi come le caverne in cui ci saremmo rifugiati in seguito.
Vestito in modo povero, con un ampio mantello scuro sulle spalle, quell’uomo venuto da lontano tuona ad una folla attonita che lo ascolta instupidita.
Io no. Le sue parole arrivano al mio cuore, mi scaldano, mi strappano dalla materialità a cui sono abituata e mi attraggono verso di lui. Un attimo e la decisione è presa. Lascio tutto, la mia famiglia, i miei beni, la mia comoda vita di provincia per calpestare nuove strade, senza meta, con il solo scopo di diffondere la parola degli Apostolici. Il cammino è lungo, spesso difficile. A noi si uniscono altri. Diventiamo il piccolo gregge di Dolcino.


Ma la Chiesa di Roma non vuole che il nostro pensiero si diffonda, che altri come noi si schierino contro la dissolutezza dell’apparato ecclesiastico, dei papi. Siamo fuorilegge, eretici, da cacciare, da perseguitare e condannare. Ci aspetta il rogo?
Ci spostiamo verso ovest, scatenando l’ira dell’Inquisizione, che si scaglia inesorabile contro la popolazione che ci offre cibo, riparo e aiuto. Ci vogliono isolare, ma la forza della nostra fede, l’ardore della predicazione di Dolcino conquista la folla, la gente comune come noi. Le sue parole ardenti sono come tizzoni accesi che riscaldano il freddo inverno delle montagne del nord.
Il tempo passa. Il nostro peregrinare ci porta nel 1304 sulle montagne del vercellese. La difficoltà del vivere quotidiano ci piega, ma non ci impedisce di armare il nostro braccio per difenderci da chi ci insegue. I vescovi di Novare e di Vercelli, l’Inquisizione, tutti vogliono le nostre teste, tutti ci voglio fermare.
Siamo braccati, come agnelli inseguiti dai lupi. Ci nascondiamo nei boschi, nelle caverne fra le montagne, là dove gli eserciti non possono arrivare. O almeno così pensiamo. I più deboli restano lungo la strada, fratelli e sorelle che saranno sempre nel nostro cuore.
Siamo affamati, armati solo di bastoni e della nostra fede.


Ci rifugiamo in una zona remota, Parete Calva, mentre l’astio dei vescovi si fa sempre più forte. Per stanarci e annientarci assoldano un gruppo di balestrieri genovesi e dei mercenari. Sentiamo il loro fiato sul collo, il loro odio avanzare lento lungo le pendici della montagna. Il buio della notte ci è amico. Ci spostiamo per sfuggire alla morte, per raccogliere le forze.
Occupiamo la Valsesia. La popolazione è divisa: chi è con noi ci aiuta come può, chi è contro di noi subisce razzie e furti. Abbiamo bisogno di sopravvivere.
Il nostro esercito di bastoni cresce. Il comportamento sconsiderato della milizia vescovile ci aiuta a raccogliere nuovi consensi. Tutti guardano a noi e alla nostra resistenza, anche il sommo Vate. È inverno. Un altro fra le montagne. Tante bocche da sfamare, il morale a terra, molti di noi si arrendono alla morte.
Il mio bene verso di lui non muta mai, lo seguo sempre, senza mai indietreggiare. La disperazione ci porta a Varallo, per raccogliere cibo e denaro. La morsa del ghiaccio ricopre tutto, donne e bambini sono i più deboli, altri morti dietro di noi.
Il 9 marzo 1306 lasciamo il rifugio di Parete Calva per andare verso le montagne del biellese. Lungo la strada perdiamo anche l’ultimo briciolo di umanità che albergava nei nostri cuori. Siamo come bestie, non più agnelli, ma a nostra volta lupi, affamati, arrabbiati, in lotta contro l’esercito e la popolazione che non ci accoglie più.
La rabbia ci mangia da dentro. L’ardore iniziale lascia il posto all’odio cieco, al desiderio di vendetta verso chi ci sta braccando da un tempo lungo. È guerra aperta. Saccheggiamo Trivero, poi i paesi vicini. La Chiesa risponde mettendo in campo nuove forze. Ci stabiliamo sul Monte Rubello. Facciamo di quel luogo la nostra casa, costruendo fortificazioni e ripari, gallerie sotterranee e pozzi. Anche le vette limitrofe diventano nostre roccaforti di difesa.
La lotta si fa sempre più aspra. Un nuovo cacciatore ha imbracciato le armi contro di noi.
È il vescovo di Vercelli, Raniero Avogadro. Da uomo di chiesa a guerrigliero il passo è breve: vuole essere lui personalmente a catturarci, a domare Dolcino e la sua agente. Sale a cavallo, guida le milizie contro di noi, con l’aiuto del papa, degli inquisitori lombardi, del duca e dell’arcivescovo di Milano. Sento la fine avvicinarsi. La neve ancora brilla sotto i nostri piedi, l’inverno combatte con noi al loro fianco.
I lupi messi alle strette reagiscono, combattono fino alla morte. Noi abbiamo fatto così. Un piccolo esercito affamato e stremato contro le milizie della Chiesa. La prima battaglia a Mosso è a nostro favore.
Schiacciamo le truppe del vescovo senza pietà. I bastoni battono le spade, lasciando a terra solo corpi insanguinati. Il tempo passa. Il vescovo non vuole mollare, arriva un altro inverno, inesorabile, rigido.
Gli uomini di Avogadro sono di nuovo organizzati, armati e ben nutriti. Noi siamo solo un branco di disperati.
Il 23 marzo 1307 veniamo catturati, insieme. La Chiesa ha vinto ancora. Ci portano nelle carceri vescovili di Biella. Ci dividono. Mentre lo trascinano via, Dolcino strepita, si dibatte, scalcia, come una bestia feroce, indomabile. Urla il mio nome. Lo guardo andare via, i miei occhi pieni di lacrime sanno cosa ci attende.
Lo guardo e ricordo ogni istante insieme. Ogni gioia, ogni dolore.
Quello che avviene dopo poco conta, i mesi che ci separano dalla morte sono solo lo specchio di un copione che l’Inquisizione e la Chiesa mettono in scena ogni volta che qualcuno è accusato di eresia.
La sentenza scontata ci condanna a morte. Di noi parlerà la storia. Per alcuni saremo un esempio, per altri solo un branco incontrollato di assassini.
Mi conducono al patibolo. Il boia è pronto, sulle rive del Cervo, a straziare il mio corpo. Il mio bene, Dolcino, mi aspetta, condannato a guardarmi morire, le mani legate dietro la schiena, piegato da mesi di carcere e torture. I nostri occhi si incontrano ancora, un’ultima volta, pieni di fuoco come quel primo giorno nel territorio di Trento. Anche io non sono più la stessa, le pene corporali mi hanno cambiata, ma il mio spirito è immutato. Possono prendersi la mia vita ma non la mia libertà, il mio cuore dolciniano.
Muoio oggi davanti ai tuoi occhi. Il fuoco è spento soffocato dal dolore.
Pochi giorni e saremo insieme, liberi di vagare sulle nostre montagne dove l’inverno non ci piegherà più.
I nostri corpi straziati bruceranno insieme a quelli di atri fratelli e sorelle, morti come noi in nome di Dio.

Rosella Reali

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

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