martedì 15 maggio 2018

con gli occhi di Dianora, la strega di Corcinesco


Ho sempre guardato il mondo con gli occhi incantati di quando ero bambina, di quando andavo nel bosco con mia nonna a cercare le erbe mentre lei mi raccontava storie fantastiche  di un tempo lontano e misterioso. Vorrei avere ancora quello sguardo, vorrei tornare a quei giorni, libera e felice a Graniga, in val Bognanco, senza paura, senza dolore. Vorrei cancellare questi ultimi mesi, in cui tutto è diventato difficile e greve. Ma non è possibile, non posso tornare indietro, non posso più essere quella donna che sapeva aiutare gli altri, che sapeva guarire chi a lei si rivolgeva. Guardo la mia immagine riflessa in una bacinella di acqua ormai sporca, la sola che ,mi hanno lasciato per bere e per lavarmi. Vedo un volto che non conosco, segnato dalla sofferenza, macchiato del mio stesso sangue, pallido e scarno, con la testa rasata. Vedo un volto che non è il mio, eppure sono io. Sono quella in cui mi hanno trasformata dopo giorni di torture e accuse. Domani è il giorno. Tutto finirà. Mi taglieranno la testa e io sarò libera di nuovo, di vagare per i boschi, di correre da lui, dal mio amore, da quell’uomo dai capelli rossi che tutti chiamano “l’eretico frescante.” Guardo il mondo da una piccola finestra, la sola della cella in cui mi hanno rinchiusa. Vedo il cielo, le nuvole farsi infuocate mentre il sole scompare inesorabile dietro le montagne.  Sarebbe bello vedere un altro tramonto, guardare la luna diventare piena.  Non voglio morire. Non è giusto. Non merito quello che mi è accaduto. Mi hanno arrestata, trascinata via da casa, come un’assassina. Mi hanno caricata su un carro, dentro una gabbia in legno, come si fa con le bestie feroci. Ho pianto, supplicato, urlato, fino a quando il carro si è fermato. Mi hanno portata in un castello, nelle prigioni, in un paese che si chiama Vogogna. Mi hanno buttata in una cella, come uno straccio. Fa freddo, la notte non passa mai. Il giorno è un calvario di dolore e umiliazione. Il silenzio è rotto solo dai lamanti di altri sventurati come me, chiusi qui in attesa di morire. Ho solo una candela a farmi compagnia, a ricordarmi che sono ancora viva. La sua fiamma mi da sollievo, mente il buio arriva lento e sinistro a tingere di nero ogni cosa. Ma non arde tutta la notte. Quando smette di brillare l’oscurità mi avvolge e mi rende invisibile al mondo, come vogliono loro. Sono Dianora Farnese, la strega, la malvagia, colei che qualcuno ha deciso di cancellare da questa terra, perché so “guastar le bestie, so fare malefici. Al mio passaggio tutti chinano la testa perché hanno paura di incrociare i miei occhi che ammaliano, che incantano, che nascondono i segreti della notte, quando vago per i boschi in cerca del mio demoniaco sposo, che sono neri e profondi come l’abisso in cui la mia magia può far cadere chi coraggiosamente li fissa. Sono Dianora, la senza Dio, la concubina di Satana, la vendicativa, colei che scatena il temporale, che fa soffiare forte il vento, che ammaestra la notte e le sue creature. Sono tutto questo? Sono davvero tanto potente, tanto abile da soggiogare uomini, bestie e natura? Guardo le mani della “strega” appoggiate alle sbarre della finestra. Le guardo e mi accorgo che sono le mie. Sono sporche, coperte di sangue, con le unghie strappate. Sono mani che hanno lottato, molto, che hanno vissuto, che hanno amato e che ora si dovranno arrendere alla morte. Le guardo e sento la bocca distendersi in un sorriso. Come possono credere tutto questo di me? Sono solo una donna, che conosce la natura grazie agli insegnamenti di sua nonna, che usa le erbe per fare unguenti e infusi, per lenire il dolore, per curare i malanni. Nonna mi diceva che ho un dono, che il mio cuore è puro e posso aiutare gli altri. Non conosco il male, non capisco le accuse che mi fanno. La vita mi ha resa dura, ma il mio cuore batte ancora forte. Non dovrei essere qui, sola al freddo, col corpo dolorante, calpestata nella mia dignità di donna, violata. Mi hanno rasato la testa, il corpo, in cerca del segno del demonio. Quel neo mi condanna. Mi hanno picchiata, legata, interrogata per giorni e ora sono qui in attesa del sollievo della morte. Questa non è giustizia. Il sole è tramontato.  Ho molti pensieri che affollano la mia mente. La mia casa. I figli di Leone che mi hanno sempre odiata. Giacomo, con la sua arte e la sua delicata follia. La mia infanzia con al nonna. Mio padre e mia madre, il loro rifiuto. I miei studi sulle erbe, il mio custodire la conoscenza che mi era stata tramandata, trasportata nel tempo. La diffidenza della gente, i loro sguardi a metà fra paura e disprezzo.  Nulla importa più, inizia la mia ultima notte.  Non voglio dormire, voglio solo ricordare le cose belle e quelle brutte. Voglio vedere la luna, che mi ha fatto compagnia tante volte mentre nel bosco raccoglievo le erbe. Voglio vedere sorgere il sole, sentire la mia amica natura svegliarsi e continuare a vivere. 



Mi sdraio. Penso alla sola persona che da bambina mi ha amata, nonna Elisabetta. Ho visto la luce nel 1531. Mia madre Domenica e mio padre Giovanni avevano già una figlia femmina. Speravano che fossi un maschio per aiutare nei campi e per accudire gli animali. Dopo di me altri due maschi e una femmina. Eravamo in tanti in quella casa. Mamma aveva sofferto molto per mettermi al mondo. Nonna le era rimasta accanto tre giorni e tre notti, dandole infusi per lenire i dolori del parto, recitando preghiere e litanie. Era levatrice e guaritrice, benvoluta dalla maggior parte delle persone. Durante la notte del terzo giorno, mia madre, stremata e debole, mi ha partorita sotto gli occhi speranzosi di mio padre. Era l’8marzo 1531. Alla mia vista la sua gioia si spense, avrebbe avuto un’altra bocca da sfamare. Mamma era troppo stanca per dire qualcosa. Rimase tra morte e vita una settimana, poi lentamente si riprese. Solo nonna fu felice del mio arrivo. Mi raccontò una volta che non piansi appena venuta al mondo, ma le strinsi forte il dito indice della mano destra. Guardandomi con amore si accorse che avevo una voglia a forma di lenticchia,  sulla spalla sinistra, proprio come lei. Ero io la predestinata a seguire le sue orme, per diventare la custode. La mia infanzia fu per pochi anni serena, nonna mi portava sempre con se, nei boschi, nei prati, a casa delle persone che la chiamavano in caso di bisogno. Io ascoltavo le sue parole e imparavo quel sapere che le era stato tramandato da sua madre e così via, da donna a donna, fino ad arrivare ad un tempo tanto lontano che nessuno ricorda più. Guardavo i gesti che compiva, come conservava le erbe e le radici, come le mischiava. Catalogava tutto con cura, e precisione. Sapeva cosa usare in ogni occasione, per ogni malanno aveva il giusto rimedio. In diversi periodi dell’anno raccoglievamo insieme foglie, fiori e frutti. La nonna riconosceva ogni germoglio: il biancospino per calmare l’ansia, l’epatica per curare lo stomaco, il non ti scordar di me per lenire l’infiammazione agli occhi, l’ortica  per curare la gotta. Il tempo passava e io crescevo. Quel nostro girovagare per i boschi impensieriva  i miei genitori. I tempi erano cambiati, bastava un pettegolezzo per far apparire una buona azione come malvagia. Non avevo ancora 6 anni quando mia madre decise di chiudermi in casa per far cessare le voci su me e nonna Elisabetta. Piansi, giorni interi. Mi disperai, nonna venne per portarmi via, ma la violenta opposizione dei miei genitori rese tutto inutile. Non ci incontrammo per mesi. Ogni tanto, senza potermi avvisare, veniva al limitare del bosco dietro casa nostra. Io sentivo che sarebbe arrivata. Quel filo invisibile che ci teneva legate era sempre più forte. Correvo alla finestra e la guardavo illuminata dalla luna. Lei  mi sorrideva. Restavo immobile senza dire nulla fino a che qualcuno in casa si accorgeva che ero lì, a contemplare la notte. Nella  mia testa sentivo la sua voce che mi parlava. La mamma diceva che ero strana, come sua madre, che prima o poi mi avrebbero accusata  di essere una strega, una sposa del demonio. L’eco delle accuse rivolte alle guaritrici nelle altre valli era arrivato fino a noi. Tutto si fece più difficile. La religione cattolica cercava di mettere radici sempre più salde anche nelle nostre valli, dove gli antichi culti sopravvivevano immutati da secoli. Chi un tempo era chiamato a guarite uomini e animali, usando la medicina della tradizione, in quei giorni era accusato di agire per conto del maligno. L’inasprirsi della repressione verso questo antico sapere aveva creato un clima pesante, di sospetto e paura. Papà era davvero preoccupato per la mia sorte, ma soprattutto per quella della famiglia. Io nel frattempo crescevo; nonna, nelle poche occasioni in cui riuscivamo a vederci, continuava a trasmettermi insegnamenti. Avevo anche imparato a comunicare con gli animali, suscitando ulteriore apprensione nei miei genitori.  Nel 1549, a 18 anni, papà mi cacciò di casa. Ero stata ripudiata. La mia famiglia mi stava rifiutando. Come poteva non farlo l’intero paese? Fu così che io e nonna ce ne andammo a vivere lontano. Lei era ormai vecchia e stanca, ma decise di seguirmi per non lasciarmi sola. Ci stabilimmo in un bosco vicino al piccolo paese di Calasca, in valle Anzasca. Eravamo al sicuro, al riparo da calunnie e maldicenze. Dopo pochi mesi nonna mi lasciò sola. Era estate, una sera particolarmente luminosa grazie alla luna che splendeva piena nel cielo. Nonna Elisabetta era sul letto. La sua stanza aveva una finestra che guardava il monte Rosa. Mi chiamò e mi chiese di aprirla. Obbedii come sempre. Mi disse: «E’ ora piccola mia, il mio viaggio finisce qui. La mia anima volerà via. Andrò sulla grande montagna e da lì ti guarderò. Fai tesoro di ciò che ti ho insegnato, siamo le custodi del sapere, tocca a te ora usarlo nel modo giusto e trasmetterlo alla prescelta. »  L’ho sepolta nel bosco sotto a un nocciolo, la sua sapienza resterà per sempre a guidare il mio cammino. 



In quel luogo isolato ho potuto dedicarmi al mio sapere, migliorare la mia conoscenza delle erbe, restare in contatto con la natura. La gente del paese veniva da me solo se aveva bisogno di aiuto. Non mi davano confidenza, non cercavano di conoscermi. Nel 1553 decisi di tornare a Graniga, per vedere la mia famiglia. Arrivai inattesa come il vento di primavera. Quando giunsi davanti a casa mi accorsi che nulla era cambiato, il tempo si era fermato. Mia madre era solo più consumata dalla vita, mio padre più curvo su se stesso. Quasi non mi riconoscevano. Ero partita come un a ragazza in lacrime, tornavo come una donna fiera e sicura di me. La vita in questo piccolo borgo non era cambiata molto. Tutto scorreva lento come un tempo, lo scarso entusiasmo dei miei genitori fu pari a quello degli abitanti del paese. Ai loro occhi ero sempre la ragazzina che preferiva stare nel bosco e parlare con gli animali piuttosto che con gli uomini.  Quel giorno per la prima volta incontrai l’uomo che sarebbe diventato mio marito, Leone Negro di Corcinesco. Non era un uomo bellissimo, ma del resto neppure io lo ero. Di me lo colpì il mio portamento fiero e quell’aria di mistero che mi accompagnava da sempre. Era vedovo, con 4 figli maschi: Lucio, Nunzio, Petruccio e il piccolo Bartolomeo, ancora bisognoso delle cure di una donna. Diventammo amici. In me vedeva un aiuto per crescere i suoi bambini. In lui vedevo la possibilità di una vita stabile e di conquistare quella rispettabilità che mi mancava. Ci sposammo il 26 aprile 1554. Non lo conoscevo, ma poco importava. Lasciai l’isolamento del bosco a Calasca, quella che era stata la mia casa e la nonna. Ci stabilimmo a Corcinesco, un piccolo borgo lontano da tutti nell’abitato di Trontano, in Ossola. Leone era benestante. Non ci mancava nulla. La casa era grande, avevamo terreni con qualche cascinale e alcune bestie da accudire. Quando andai a vivere con la sua famiglia immaginavo che insieme avremmo avuto una vita serena. Fin da subito mi accorsi che non sarebbe stato così. I suoi figli, tranne il più piccolo, mi fecero capire fin da subito che non ero ben accetta. Non volevano che prendessi il posto della loro mamma. Il passare del tempo non migliorò i nostri rapporti. Ad appesantire la situazione si aggiunse la consapevolezza che forse non sarei mai stata madre. La nostra sterile unione fu per me motivo di grande tristezza. Anche a Corcinesco mi dedicai allo studio delle erbe e al perfezionamento del loro impiego. I figli di Leone crescevano e con loro aumentava il rancore verso di me. Ogni tanto ci capitava di andare in visita da alcuni conoscenti di mio marito nell’abitato di Montecrestese. E questo mi permetteva di allontanare la mente dai problemi quotidiani. Era la primavera del 1563. Lo ricordo molto bene quel giorno. I primi fiori di campo prendevano il posto della neve, il sole riscaldava i nostri corpi ancora avvolti in abiti invernali. Io e Leone eravamo soliti andare a messa nella chiesa del paese. Entrammo e, dopo un primo momento di abbagliamento, mi accorsi che un uomo stranamente vestito si accingeva ad ascoltare la messa in ginocchio. Quando gli passai accanto vidi che indossava una tunica con una croce rossa cucita sul petto. Incrociammo lo sguardo. Un attimo mi bastò per riconoscere nei suoi occhi lo stesso abisso che vedevo nei miei. Riconobbi la notte. Leone mi prese per un  braccio e mi portò a sedere distante. «Chi è quell’uomo?» chiesi. «Un notaio caduto in disgrazia perché luterano, tale Giacomo da Cardone.» Ero persa. Tornammo a casa quella stessa sera. Il mio pensiero correva a quella figura sconosciuta, a quell’uomo penitente. Passarono giorni e poi settimane. Nel frattempo in paese la gente, venuta a sapere della mia fama di guaritrice, mi chiamava ogni tanto per curar qualche bestia malata. Capitò anche di aiutare qualche amico di mio marito, piccole cose che contribuirono  a farmi conoscere come guaritrice e a farmi soprannominare la “Balda”. Non tutti però approvavano il mio agire. C’era chi mi guardava con sospetto, chi con grande ammirazione. Questo vociare intorno  ame  non rendeva felice la mia famiglia. La salute di Leone intanto peggiorava. Gli inverni rigidi e le difficoltà della vita costrinsero i suoi figli a partire in cerca di fortuna. Rimasi sola ad occuparmi di tutto. La mia rinnovata indipendenza, lontano da occhi indiscreti, mi permise di tornare  spesso a Montecrestese, per curare gli interessi della famiglia. Durante queste visite sempre più frequenti, ebbi modo di instaurare una tenera amicizia con Giacomo e di conoscere la sua terribile vicenda. Nel 1561 era stato accusato di essere un eretico, di essere luterano. Lo avevano torturato e costretto ad abiurare. Scoprii standogli accanto che era anche un pittore molto bravo. Aveva affrescato la chiesa di Montecrestese e quella di un lontano paese in un’altra valle. Stare con lui mi faceva sentire bene. Ero libera dal peso di quella vita che non mi apparteneva.  Mi guardava negli occhi senza giudicarmi, vedeva solo Dianora la donna, non la guaritrice. Dei figli di Leone non seppi più nulla per molti anni. Accudire  lui e i suoi averi mi stava logorando. Finalmente nel 1566 Giacomo ormai divenuto parte della  mia vita, fu riabilitato e poté tornare alla sua attività. Non smettemmo mai i nostri incontri settimanali, neppure quando Leone si aggravò. Era l’inverno del 1579. Ricordo che fu uno dei più rigidi  da quando abitavo a Corcinesco. Era mattina presto. Mi alzai e andai nella stanza dove Leone dormiva. Entrando sentii  un‘aria gelida venirmi incontro, sentii come se l’inverno fosse entrato dalla finestra per avvolgermi. Capii subito. Mi voltai, uscii, mi vestii e andai in paese a chiamare il parroco. Quando tornammo e rientrammo nella stanza mi accorsi che anche lui aveva sentito quel freddo improvviso. Eppure la stufa era accesa. Lo vidi stringere forte il crocifisso che aveva  in mano e farsi il segno della croce. Bisbigliava qualcosa che non capivo. Si avvicinò per benedire il corpo, guardò il comodino  e mi chiese: «Cosa c’è in quella tazza?» «Una tisana» risposi. Capii subito cosa aveva pensato. I giorni successivi furono tutti un vociare  sul contenuto di quella coppa. Ero la Balda, quella che guariva ma che sapeva anche “guastar le persone”. La mia fama, nel bene o nel male, aveva raggiunto anche i paesi vicini. Quel mio saper usare le erbe, il mio girovagar per boschi di notte, spaventava e incuriosiva. Venivo chiamata sempre più spesso per aiutare chi soffriva. Capitava che ci trovassimo allo stesso capezzale io e il prete, lui a recitar preghiere, io a dar tisane e unguenti. La mia amicizia con Giacomo divenne sempre più forte e chiacchierata. Al nostro passaggio molti si scansavano, il luterano e la strega incutevano timore. Perché alla fine, come fu per nonna Elisabetta, la mia conoscenza era considerata da molti come un potere datomi dal maligno, non una dote che avevo saputo accrescere negli anni.  Passammo insieme qualche inverno isolati nel podere di Corcinesco. Anche Giacomo, da tempo rimasto vedovo, non disdegnava la solitudine di quel luogo. Mi aiutava con gli animali. Vivevamo con poco ma felici. Era la primavera del 1586 quando tutto cambiò nuovamente. Un giorno, senza preavviso, i figli di Leone fecero ritorno a Trontano. Lo venni a sapere per caso. Avevano fatto fortuna, non si sa bene come. Tornarono più ricchi e desiderosi di riveder il padre. La notizia del loro arrivo fu per me motivo di rabbia. Tornavano forse per reclamare la loro proprietà? Il tempo aveva mandato quasi tutto in rovina. Io da sola non ero in grado di gestire ciò che possedevo. Il nostro primo incontro non fu pieno di affetto. Mi chiesero conto della morte di Leone, delle voci che incessanti ancora giravano sulla tisana che gli avevo preparato. Il degrado in cui trovarono il podere fu motivo di ulteriore astio. Quelli che seguirono furono giorni difficili. Io ero sola, Giacomo era partito, loro erano in quattro, sostenuti dalle maldicenze del paese che rendevano il clima sempre più teso. Ero ospite non gradita sulla loro terra, nella loro casa. I quattro fratelli decisero, senza interpellarmi, che avrebbero costruito al confine con Corcinesco una casa fortificata, per andarci a vivere. Mi stavano sfidando. Non li volevo li, avrebbero controllato e giudicato ogni mio movimento, ogni azione. Le voci sulla mia attività di guaritrice dalle eccezionali doti, li fecero infuriare ancora di più. Decisero di colpirmi con la calunnia, la peggiore delle armi. Fecero giungere all’orecchio del prevosto di Vogogna e a quello di Malesco, in valle Vigezzo, la voce che in zona avvenivano cose strane, incontri al chiaro di luna la sera nel bosco, guarigioni inspiegabili, malattie improvvise. Il seme del sospetto era stato piantato. La presenza di Giacomo al mio fianco contribuì ad alimentare il fuoco della menzogna.  Nell’autunno del 1590, dopo anni passati a difendermi da infondate accuse, arrivò da Milano la notizia che il Capitano di Giustizia della città aveva comunicato all’arcivescovo, all’epoca Gaspare Visconti, la richiesta di procedere con indagini accurate a mio carico, allo scopo di dimostrare, senza ombra di dubbio, che io fossi una potente strega. Fu così che nell’estate del 1591, un frate inquisitore dalla città giunse a Montecrestese e si stabilì a casa di Giacomo, poiché era il personaggio più in vista del paese. In quel luogo, protetto dall’immagine di San Rocco, dipinto dallo stesso Giacomo per punizione durante gli anni di penitenza, l’inquisitore iniziò le sue indagini. Per la nostra tenera amicizia fu un duro colpo. Non potemmo più incontrarci. Non potevamo rischiare di destare sospetti nei suoi confronti, che già aveva patito le pene dell’inquisizione. La raccolta delle prove fu semplice. I figli di Leone fecero di tutto per farmi apparire malvagia e senza Dio. Offrirono persino del denaro per creare testimoni a mio carico.  Il 24 settembre del 1591 fui arrestata presso le rive del rio Graglia, con l’accusa di essere una strega in grado di “guastar uomini, animali e fantolini, di scatenare tempeste e di far seccare le messi al mio passaggio”. Mi portarono a Vogogna e mi gettarono dove ancora mi trovo. La prima notte mi lasciarono al buio. Le ore scorrevano lente e l’incertezza sul mio domani mi paralizzava. Rimasi tutta la note a fissare la finestra, sapevo che per me non c’era speranza. 



Il mattino seguente entrarono in cella, di buon ora, un frate domenicano, dall’aria severa, e due uomini sconosciuti. Mi trascinarono come uno straccio lungo un corridoio con altre celle, da cui flebili mi giungevano i lamenti di altri sventurati. Entrammo in una stanza illuminata solo dalla luce di un camino acceso e di una consumata candela, con un tavolo pieno di arnesi e delle corde appese al soffitto. In breve capì a cosa servivano quei ferri. Dopo avermi legata, mi straziarono il corpo per un tempo infinito. Mi picchiarono. Mi ripetevano di continuo che le prove raccolte a mio carico erano tante e che la sola cosa che avrei potuto fare per abbreviare lo strazio a cui ero destinata, era confessare la mia colpa. Su di me trovarono il segno del demonio, quella voglia a forma di lenticchia sulla spalla sinistra, era la conferma che ero la strega di cui tutti avevano timore. Confessai quello che volevano sentirsi dire, quando le loro mani conobbero le mie intimità. Ero niente per loro, solo un male da cancellare dal mondo. Seguirono altri giorni di patimento e umiliazione. Poi rimasi sola. Il 12 ottobre, il tribunale dell’inquisizione allestito nel castello, mi condannò a morte per decapitazione.  La notte è finita. È mattina. Il sole sorge. Per me giunge la fine. Guardo le montagne e la valle sotto di me. La vita continua, io mi fermo qui. Il mio pensiero corre a te Giacomo, compagno e amico nella solitudine, al mio bosco a Corcinesco, alla luna piena, a nonna Elisabetta che riposa sotto il nocciolo.  Oggi muoio senza colpa, ma la mia storia, quella di Dianora Farnese la Balda., sopravvivrà al tempo ed alle calunnie della gente.  Ora sono libera.   

Rosella Reali

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/

Si ringraziano di cuore Nicola Sgrò per il materiale e Stefania Pelfini per le fotografie.

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

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