martedì 17 aprile 2018

formaggio, santi, per non parlare dell'uomo selvatico


0 - Abstract

Il formaggio. Uno degli alimenti fondamentali per la dieta alpina, ricco di proteine, dalla lavorazione ricca di tappe, e di relativi sottoprodotti. Panna, burro, formaggio, ricotta… Sono tante le fasi intermedie della lavorazione. Il presente contributo vuole indagare antropologicamente il “ciclo del formaggio”, entrando non tanto nelle differenti tipologie di lavorazione, quanto piuttosto nelle tradizioni correlate al formaggio ed ai suoi derivati: dai santi protettori dell’enarpa e della desarpa, ovvero la salita e la discesa dell’alpeggio, sino a san Luguzzone, “protettore” dei formaggi. Senza dimenticare un fenomeno più “pop”, ovvero l’uso della tradizione e dei suoi “stereotipi” (il carretto del formaggio, le mucche che pascolano libere, la sapienzialità delle antiche ricette) in campo pubblicitario. Dalla Robiola Osella sino al Parmigiano Reggiano ed al Grano Padano, simboli enogastronomici dell’Italia nel mondo.


1 - Breve panoramica di formaggio ossolani

Molto importanti nell’enogastronomia alpina, come avuto modo di accennare precedentemente, sono i formaggi. In Ossola il “re” indiscusso dei latticini - anche per via del suo costo, che arriva a superare i 35€/kg - è il Bettelmatt. Si tratta di un cru pregiato della famiglia delle tome della montagna ossolana. La sua zona di produzione è l’alta valle Formazza, con pochi alpeggi riconosciuti ufficialmente e che possono effettivamente marchiare Bettelmatt, e si prepara con latte vaccino. Presenta una pasta molle ed untuosa, prodotta solo d’estate con una tecnica molto simile a quella del gruvyere. Il latte, scaldato a circa 40°C in caldaia di rame, viene cagliato in 20-35 minuti e rotto in grumi grandi quanto un pisello, lasciata riposare e quindi cotta. Con una tela si raccoglie il deposito, lo si pone in una fascera. lo si fa raffreddare e lo si torchia per 12-24 ore. A questo punto la forma o viene messa in salamoia per 10-15 giorni, oppure viene salata a secco, per essere quindi messa a maturare per minimo un paio di mesi.
Oltre al Bettelmatt da citare la grande famiglia dei grassi d’Alpe, mezzapasta o spress. Anche in questo caso si tratta di un formaggio di latte vaccino, con una pasta tenera ed elastica, ottenuto scremando parzialmente il latte per asciugare il formaggio il più possibile. Si coagula quindi a 30°C. si procede ad una prima rottura della cagliata, si semicuoce la pasta e, quando questa si deposita sul fondo, si procede ad una seconda rottura della cagliata. Dopo questo procedimento la massa va messa nelle apposite fascere, dove viene pressata per alcune ore. La due facce vengono quindi salate a secco e le forme vengono sistemate in locali aereati, ad una temperatura tra i 12°C ed i 15°C. La stagionatura avviene in tre o quattro mesi, ma può arrivare fino all’anno, persino 14 mesi. La differenza di stagionatura ha effetti sulla crosta, che si presenta in diverse variazioni di marrone: da quello più chiaro al bruno. Una piccola e breve considerazione su questo formaggio e sulla sua valorizzazione: negli anni scorsi, grazie ad un progetto della Provincia del Vco, in occasione delle feste si erano aperti, proprio per promuovere questa eccellenza gastronomica, degli “spress-bar”, che giocavano, anche nel nome, con il tipico formaggio ossolano, la velocità del servizio - quasi “e-spress” - e la moda crescente degli aperitivi.
A questo si aggiunge il formaggio Ossolano, che proprio nel 2017 ha ottenuto il riconoscimento della Dop. La sua area di produzione è appunto quella dell’Ossola e delle sue sette vallate laterali: si tratta di un formaggio semigrasso o grasso a pasta dura e semicotto, prodotto con latte intero bovino.Si tratta di un formaggio storico: le sue prime attestazioni risalgono infatti a poco dopo l’anno Mille.
Slow food riconosce anche tra le eccellenze il Caprino ossolano, a pasta morbida e compatta prodotto in tutta l’Ossola. Naturalmente un tempo la produzione di formaggi, un tempo florida in tutta l’area, venne abbandonata sin quasi all’estinzione, fino alla ripresa grazie ad allevatori - casari di origine lombarda che hanno reintrodotto la produzione. Si tratta di un classico caprino di montagna, prodotto da marzo a novembre, facendo inacidire e raffreddare il latte crudo fino a 18°C. Si passa così all’aggiunta del caglio trasferendo la cagliata in formelle per poi procedere alla salatura a secco ed il completo spurgo del siero. la maturazione avviene in tre giorni, quando si forma una buccia sottile bianca o giallo paglierino (cfr Slow Food, 2012).


2 - L’andare in alpeggio

L’alpeggio, o meglio l’andare all’alpe è sempre stato uno degli eventi calendariali più importanti in ambito alpino. Questo perché, come solitamente si spiega ai bambini piccoli, rappresentava un po’ la “vacanza” delle mucche. Vacanza, virgolettato volutamente, perché in realtà corrispondeva ad un periodo di superlavoro per l’alpigiano, che si trovava costretto a seguire i ritmi del bestiame, in mandrie che, spesso, comprendevano gli animali di più famiglie.
Andare all’Alpe era un vero e proprio viaggio, pericoloso sotto certi aspetti. In primis perché si andava nella natura poco antropizzata, pertanto era necessario avere dei santi che facessero “da marca” - ovvero creassero un tempo “benedetto” per compiere questa traversata. E, guarda caso, si tratta di due santi sauroctoni, ovvero che uccidono serpenti - o diavoli -, precisamente san Bernardo da Mentone o da Aosta (canonizzato il 20 giugno) e Michele Arcangelo (29 settembre). Questo era il periodo fausto per potersi recare all’Alpe, per intraprendere il viaggio nella wilderness per portare le mucche a pascolare e nutrirsi di erba migliore. Ed il motivo per cui la salita e la discesa dall’alpe (rispettivamente enarpa e desarpa) è protetta da questi due santi è molto semplice: si tratta della volontà di porsi sotto la protezione di due santi che, nella loro iconografia, “dominano” la natura. San Bernardo, che tiene incatenato, rendendolo quindi innocuo, un diavolo / uomo selvatico / serpente, simbolo della natura selvaggia, dei suoi pericoli. E questi pericoli vengono addirittura uccisi dall’arcangelo Michele, sotto la cui protezione si scende dall’alpeggio per tornare nelle consuete abitazioni: il formaggio prodotto che viene portato a casa verrà venduto o consumato e sarà un ottimo viatico per passare l’inverno. Come una lancia che trafigge il drago inverno.


3 - San Luguzzone

Oltre ai santi sauroctoni esiste anche un santo patrono dei casari, delle mandrie e dei pastori, rappresentato con una forma di formaggio al fianco. Si tratta di san Luguzzone, ovvero il martire Lucio di Cavargna, canonizzato il 12 luglio. La sua storia è molto singolare: secondo la sua agiografia del 1861, sul lago di Como, precisamente a Cavargna, viveva, nel XII-XIII secolo, un pastore di nome Lucio. Un pastore che «non temeva le infuocate canicole, tempi piovosi, ed ogni intemperie delle stagioni; pazientava il salire sui monti, il calare nelle valli, il vivere nei boschi, sempre attento alla guardia commessagli degli armenti; e come se fosse istrutto dalle pecore e dal latte che maneggiava, tal era obbediente e arrendevole alla grazia del suo stato. Faceva in somma tutto ciò con tal esattezza, che in breve anche per una strada abietta poté giungere ad un termine glorioso di cristiana pietà e soda virtù del Vangelo».
Lucio si dimostrò un pastore molto attento anche al contesto sociale: non esitava, infatti, a donare prodotti ai poveri, cosa che gli costò il posto. Non si trattava naturalmente di furto - mai un santo potrebbe rubare! -: era talmente abile nelle sue doti di pastore da riuscire a produrre, con il siero di latte - che normalmente viene buttato - della mascarpa che donava ai poveri. Il suo “padrone”, però, temendo furti, decise di licenziarlo. «Appena scacciato San Lucio dalla prima casa con tanta empietà del padrone - prosegue l’agiografia -, quasi fosse entrata in quella casa la carestia, andava di giorno in giorno impoverendosi l'avaro di pecore e di latte e d'altri suoi averi. All'opposto entrato il santo nella seconda casa con tanta cortesia di quell'altro padrone, quasi in essa fosse entrata con lui l'abbondanza, andava ogni dì arricchendosi; crescevano le sue pecore ne' prati; estratto il latte, si riempivano lor le poppe, coagulando il latte, si ricavava duplicato il cacio, tagliandosi questo in pezzi o ai compratori o ai poveri, le forme si ritrovavano ancora intere: tutto ciò con somma confusione dell'avarizia del primo padrone, in premio della buona grazia del secondo, e in fine a chiara gloria e guiderdone anche temporale della carità del nostro Santo. Collo strepito di un tale miracolo siccome più si accreditava il nome di Lucio presso degli altri, così sempre più contro di lui cresceva il furore del primo padrone, il quale (...) smaniava di sdegno per la sua disgrazia, e si rodeva d'invidia per la buona sorte dell'altro (...) e armato il fianco di coltello omicida, andava in giro per tutti quei luoghi, dove era abitudine del Santo di portarsi».
San Lucio venne martirizzato dall’invidia del suo primo padrone: una morte particolare che non entra nei canoni tipici del martirio - ovvero quando un santo viene ucciso a causa della sua fede o per preservare la sua integrità. Questa la spiegazione che troviamo nella sua già citata agiografia: «Si potrebbe qui cercare se la morte di San Lucio sia vero martirio; perché non fu data in odio del Vangelo, né sostenuta per difesa della Fede. Ma il gran Dottor delle scuole, San Tommaso ne toglie ogni difficoltà, col dir che basta per il martirio il soffrire con intrepidezza la morte, al fine di sostener con essa una di quelle virtù che ci furono raccomandate da Cristo (...). È vero che il barbaro omicida non lo uccise per odio contro la Fede, ma lo uccise però per odio contro il suo santo operare, contro le sue massime, contro la sua carità. (...) siccome il Battista dicesi Martire dello zelo, della pudicizia Agnese, egli a ragione si può chiamare Martire della carità».
L’iconografia del santo è particolare: la prima raffigurazione la troviamo già nel 1280, pochi anni dopo la morte, in un pilastro della cattedrale di san Lorenzo a Lugano e reca in mano un coltello ed una forma di formaggio, suo attributo principale.


4 - Uomo selvatico

Quello che faceva san Luguzzone, ovvero utilizzare e riciclare anche gli ultimissimi scarti della caseificazione trasformando il siero in mascarpa era una peculiarità anche degli uomini selvatici, figure cardine delle tradizioni alpine. Si tratta delle personificazioni delle entità naturali, che sono molto particolari ed ambivalenti. Hanno infatti le fattezze di uomini pelosi - l’iconografia più conosciuta è forse quella dell’Homo salvadego di Sacco in Valtellina -, diffusi in ambito alpino ma anche in tutto il mondo nelle forme di Yeti piuttosto che Bigfoot. Rappresentano la selvatichezza, l’uomo che vive a stretto contatto con la natura non antropizzata, in armonia con essa. La sua figura veniva venerata in passato come divinità della natura e per questo venne sussunta nella liturgia cristiana (pensiamo a san Giovanni Battista, raffigurato vestito di pelli proprio come un uomo selvatico) ed addirittura inglobata nelle chiese, come ad esempio nelle guglie del Duomo di Milano. Il personaggio è entrato molto anche nel folklore, sotto forma di uomo di protagonista del rito della Giubiana di Canzo, l’ultimo giovedì di gennaio, piuttosto che in alcuni carnevali, assumendo la forma di orso (che viene sbarbato, quindi antropizzato), ad esempio a Mompantero dove l’animale - simbolo della selvatichezza - viene cacciato e fatto ballare.
Sono molti gli spunti di riflessione che l’uomo selvatico può fornire, ma un aspetto della sua storia è senza dubbio particolarmente interessante. E’ stato lui ad insegnare agli alpigiani a fare il formaggio e le sue varie fasi di lavorazione. Un sapere che ha trasmesso volentieri ma, a causa del comportamento scorretto degli uomini - solo in parte. Mi spiego meglio: a seconda delle leggende che troviamo l’uomo selvatico si allontana dagli uomini o perché viene scacciato, oppure semplicemente perché - come nella leggende dell’uomo selvatico tramandato in Trentino, nella zona dei Mocheni - gli uomini non volevano conoscere altro. Questa leggenda è particolarmente strana: il personaggio chiede agli uomini se vogliono conoscere altri segreti, ma loro rispondono che l’aver imparato a fare il formaggio è abbastanza. E così l’uomo selvatico se ne va, quasi adirato: «Aveste desiderato di conoscere altro vi avrei insegnato altro, ovvero fare cera con il siero del latte. E così sarei stato liberato». La leggenda, però, non spiega da cosa. E’ lecito ipotizzare che fosse vittima di un maleficio stile La bella e Bestia, ma il folklore non è più specifico.
Aspetto fondamentale e comune a tutte queste tradizioni è il fatto che l’Uomo selvatico è il portatore del sapere caseario, soprattutto dell’ultimo segreto, ovvero quello di trasformare il siero in cera. Un potere stile quello di Re Mida, poiché la cera era un bene molto prezioso, soprattutto in un periodo - quello della tradizione - dove l’ìlluminazione era basata sul fuoco, con candele e lampade.

5 - La musealizzazione

Il timore della perdita della memoria - il cui eponimo, in tempi moderni, è lo zombie (Cfr Ciurleo - Piana, 2016) - è una delle caratteristiche degli ultimi anni del Novecento e di questo inizio millennio. Una reazione, se vogliamo, al “dumping culturale” degli anni ’50 e ’60 del Novecento: due decenni che segnarono la fine di molte tradizioni (e se vogliamo anche la quasi scomparsa del dialetto). Salvo poi la loro rinascita - spesso inaspettata - ad opera in molti casi di giovani, che assumono o riprendono il ruolo di “demiurghi” della tradizione. E spesso ad opera dei giovani - complici anche i finanziamenti regionali o dei bandi delle varie Fondazioni - sono nati, a partire dagli anni ’90, anche numerosissimi musei etnografici (che in alcuni casi a sproposito - ma naturalmente non è il caso di quello del Lago d’Orta - assumono la definizione di “Ecomuseo”). In molti casi i musei, in realtà, non sono veri musei, ma una sorta di “svuotacantine senza possibilità di acquisto”, con attrezzi agricoli (in primis rastrelli) appesi in maniera patologica alle pareti. Ma in alcuni casi, fortunatamente, la ricostruzione è ben fatta ed ha una valenza scientifica piuttosto che collezionistica. E’ questo il caso del museo della Latteria turnaria di Casale: un museo che racchiude reperti proprio inerenti il ciclo del latte. La latteria fu costituita nel 1872, e cessò la sua attività nel 1941 (a causa dell’obbligo di denuncia dei prodotti caseari) per poi chiudere definitivamente i battenti anche a livello formale nel 1995, sciogliendo il consorzio gestore. L’amministrazione comunale decise così di trasformarlo in museo, che venne inaugurato nel 2014. Un museo che conserva anche reperti dell’immateriale, con interviste fruibili in cuffia da alcuni tablet.

6 - Tra carretti della Robiola Osella e mucche infiltrate

Ultimo spunto di riflessione che propongo è quello relativo al marketing, al mondo della pubblicità. La tradizione, come dimostrato più volte (cfr Ciurleo, 2013; Ciurleo - Piana, 2016), è un valore aggiunto che legittima un aumento di prezzo. Il consumatore è “fisiologicamente” disposto a spendere di più per un prodotto che richiama - anche inconsciamente con l’abbinamento dei colori - il mondo della tradizione. 
Questo è stato sfruttato moltissimo in ambito pubblicitario. Analizzerò brevemente solo alcune pubblicità di latticini. Ad esempio una vecchia pubblicità delle mozzarelle Francia, dove il proprietario dell’azienda, seguendo l’esempio di “metterci la faccia” portato avanti con successo da Giovanni Rana, spiega che la produzione delle sue mozzarelle è portata avanti seguendo la tradizione. Tradotto: non meccanizzazione ad oltranza, quanto piuttosto un giusto dosaggi di quel saper fare che rappresenta il valore aggiunto dei prodotti artigianali. Il secondo esempio è quello del Parmigiano Reggiano: siamo sul finire degli anni ’90 e il consorzio del formaggio simbolo dell’Italia nel mondo produce una serie di spot in cui si valorizza il “controllo” delle materie prime - cosa che oggi, a vent’anni di distanza, è diventata un must, pensiamo ad esempio alla linea di prodotti Origine di Coop Italia. Le scenette, divertenti, vedono i goffi tentativi di una mucca di entrare nell’esclusivo “club” delle mucche che producono il latte utilizzato per il Parmigiano. Ma il contadino non le permette di entrare perché “no so cosa mangi”...
Ultimo e breve esempio che voglio citare è quello della Robiola Osella, la cui pubblicità, a distanza di anni, non è significativamente cambiata. A parte il claim e le immagini del prodotto, la pubblicità, da oltre una ventina di anni, si chiude con il passaggio del carretto. Un carretto - a trazione animale - che richiama quel passato mitico della tradizione. E che richiama, se vogliamo, il nonno di Heidi, archetipo dell’alpigiano (e tutti lo conoscono come Vecchio dell’Alpe, un po’ burbero come un uomo selvatico): colui che sa fare il formaggio e portatore di quella sapienzialità antica che permette di conoscere le erbe migliori per far tornare il latte alle bestie (e salvare così Bianchina).

Luca Ciurleo

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/

Bibliografia

Bravo, Gian Luigi, 2001 - Italiani, Meltemi, Roma

Cattabiani, Alfredo, 1993 - Santi d’Italia, Rizzoli, Milano

Ciurleo, Luca, 2013 - Tradizioni di pastafrolla, edizioni Ultravox, Domodossola

Ciurleo, Luca - Piana, Samuel, 2016 - Ciboland, Landexplorer edizioni, Boca

Grimaldi, Piercarlo, 1996 - Tempi grassi, tempi magri, Omega edizioni, Torino

Sitografia


LUCA CIURLEO

Luca Ciurleo, classe 1983, laureato in Antropologia culturale ha compiuto, nel corso degli anni, diverse ricerche sulla realtà etnologica ossolana, in particolare sugli alberi rituali, sui falò solstiziali e su alcune comunità, quale Piedimulera e Vogogna. 
Ha al suo attivo una decina di volumi, tra cui “Da Abissinia a Cappuccina” (con Antonio Ciurleo, 2006), “Walter Alberisio: una vita per la poesia” (2007), “Gente di paese, paese di gente” (2010), “Tradizioni di pastafrolla” (2013), “Quarant’anni di Coro Valgarina” (2014). 
Collabora con la Fondazione UniversiCà di Druogno, ha insegnato Antropologia dell’alimentazione alla Scuola Made di Lucca ed ha tenuto diverse conferenze relative all’Ossola, anche ad Expo 2015. Tra le sue ultime ricerche: spunti antropologici nella cultura pop, antropologia dell’alimentazione e nuove prospettive alimentari. Dal 1998 collabora con il settimanale Eco Risveglio. 

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