mercoledì 7 marzo 2018

Stanislav Petrov, il lucido analista che salvò il mondo


Siamo verso la fine dell’estate del 1983 e più precisamente l’ultimo giorno di Agosto. Un’estate torrida un po’ in tutto il mondo ulteriormente infuocata, ironia della sorte, dalla Guerra Fredda che si trovava in quel momento alla sua recrudescenza massima.
All’aeroporto di New York, l’esperto pilota Chun Byung In, con un trascorso nell’aviazione militare coreana e oltre diecimila ore di volo alle spalle, sta terminando insime al suo pilota in seconda le ultime procedure per i controlli del Boeing 747 che avrebbe dovuto portare i 269 tra passeggeri e membri dell’equipaggio a Seoul. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che, nonostante l’esperienza del comandante, il volo non sarebbe mai giunto a destinazione.
Il volo Korean Airline 007 decollò da New York come previsto e dopo uno scalo tecnico ad Anchorage in Alaska per un rifornimento, riprese la rotta alla volta della capitale della Corea del Sud. Quando l’aereo si avvicina a Hokkaido, la più settentrionale dell’arcipelago di isole giapponesi, è ormai il 1° settembre del 1983 e il Boeing vìola l’allora proibito spazio aereo russo.
E’ in quel momento che l’aereo viene intercettato da due caccia dell’aviazione sovietica che comunicano immediatamente con la loro base che, pare, stesse seguendo un aereo spia americano che procedeva su una rotta quasi parallela e sovrapposta.


Dopo qualche tentativo, le notizie ci riportano vane, di mettersi in comunicazione con il Boeing 747 della Korean Airlines perentorio giunge l’ordine di abbattimento. Alle 3:26 del 1° settembre 1983 nei pressi dell’Isola di Moneron, ad ovest di Sachalin - allora territorio dell’Unione Sovietica - due missili colpiscono l’aereo civile facendolo precipitare verso il mare, spezzando le vite di tutti gli occupanti.
Accuse reciproche delle due superpotenze fecero salire vertiginosamente la tensione. Washington accusava i russi della strage di innocenti mentre Mosca ribatteva che non solo l’aereo non aveva risposto ma sospettavano fosse una manovra di spionaggio USA.


Questo doveroso prologo esclusivamente per ricordare al lettore in che clima di tensione si trovasse allora il mondo e come fosse bastato un nonnulla per scatenare una possibile guerra nucleare. Veniamo dunque alla nostra storia.
Stanislav Petrov è un tenente colonnello quarantacinquenne, ma non un militare di prima linea piuttosto un bravo analista, uno stratega addetto a turni di controllo sui vari apparati elettronici: un lavoro dietro le quinte rispetto a una guerra sul fronte.
E’ il 26 Settembre 1983, meno di un mese dalla strage del volo di linea della Korean Airlines, probabilmente Stanislav aveva pensato durante la mattinata come passare la sera visto che non era di servizio. Magari non aveva in progetto nulla, semplicemente di trascorrerla in maniera semplice: una cena e una bella dormita pronto per i servizi del giorno dopo. Mi piace pensare che, nonostante il suo lavoro lo potesse richiedere, quella sera non l’avesse nemmeno sfiorato l’idea che poche ore più tardi avrebbe dovuto prendere una decisione così delicata nel giro di un battito di ciglia, o poco più.


Come detto non si aspettava di dover entrare in servizio, invece - forse casualmente - fu precettato per sostituire un militare professionista per un turno di guardia ai calcolatori elettronici della base Serpukhov-15, vicino Mosca. La sera trascorse né più né meno come tutte le altre, controlli di routine, verifiche agli strumenti, forse qualche parola con i colleghi seppur nella rigorosa disciplina militare, nell’attesa che l’alba arrivasse.
Tutto questo fino alle 00:15 quando, improvvisamente, una luce rossa si accese sul quadro di comando segno che un lancio missilistico da qualche base USA era in corso.
Improvvisamente il gelo, ricorda Petrov, tutti i presenti si girarono e lo guardarono negli occhi in attesa di un suo comando, di una sua decisione. All’inizio fu la paralisi anche per il tenente colonnello, posso immaginarmi gli infiniti pensieri di quell’uomo solo al comando a cui veniva chiesto di prendere una decisione: possibilmente quella giusta. Sicuramente non facile perchè la mente probabilmente non fece fatica a ritornare indietro di 25 giorni e farsi convinta che gli Americani volessero impartire una lezione alla Russia per quell’abbattimento e ancora a sei mesi prima quando Regan definì la Russia “l’impero del male” e Andropov - l’allora segretario generale del PCUS - si dichiarava certo di un imminente attacco USA.


La situazione divenne ancor più tesa quando a pochi minuti dall’accensione della prima luce rossa sugli schermi se accese un’altra e poi un’altra ancora. «Missili termonucleari americani in arrivo. Colpiranno il territorio dell’Unione Sovietica fra 25/30 minuti» telegrafica la comunicazione: fu l’inizio del countdown.
Ma Petrov non era un ottuso avventato che si limitava ad applicare protocolli. Lui no, era un lucido analista e come tale aveva il dovere di verificare che il paventato attacco fosse effettivamente reale. Petrov come stratega non si fece prendere dal panico, semplicemente non credeva che l’America potesse attaccare l’Unione Sovietica e se l’avessero fatto certamente non sarebbe stato “solo” con quello sparuto grappolo di missili.
Diede quindi l’ordine di procedere con una serie di controlli, ventinove in tutto, che durarono alcuni preziosi minuti e che purtroppo confermarono non vi fosse alcuna anomalia di sistema e quindi il lancio di missili era reale. Ma Petrov no. Non era convinto, nonostante i controlli, che quello potesse essere un attacco ma con testardaggine si ripeté: “è un’anomalia del sistema”.


Quindi fece una cosa che molti non avrebbero fatto: si prese delle responsabilità e decise di non comunicare nulla e rimase ad aspettare 12 interminabili minuti, quelli che mancavano all’impatto. Non credo lo fece con incoscienza ma nella consapevolezza della sua capacità di analista, con un po’ di intuizione e non senza timore che comunque si potesse essere sbagliato. Alla fine dei 12 minuti non accadde nulla, nessun missile si abbatte sul territorio russo: la lucida analisi di Petrov e il mancato ordine di contrattacco salvò il mondo da una possibile rappresaglia Americana in risposta al lancio di missili (a questo punto vero) e un’escalation che avrebbe portato, probabilmente, alla terza guerra mondiale. Se al suo posto ci fossero stati militari o agenti del KGB poco inclini a trasgredire a ordini e procedure forse le cose sarebbero andate diversamente come, molti anni dopo, il maggiore che aveva affiancato il jet civile della Korean Airlines e ricevette l’ordine di abbattere l’intruso affermò: «Non dissi alla base che era un Boeing, perché nessuno me lo aveva chiesto».
Erano gli anni in cui gli ordini non si discutevano, mai! Petrov però non aveva contravvenuto agli ordini si era assunto una responsabilità che, tra l’altro, si era rivelata corretta salvando l’intero pianeta. La tesi di Petrov dell’errore dei sistemi russi venne successivamente avvallata da ricerche scientifiche che spiegarono l’accaduto come riflessi della luce solare sulle nuvole: segno che il sistema di intercettazione Russo non era affidabile e, in quella circostanza, aveva fallito.
Tra l’aver salvato il mondo da un’escalation nucleare e aver messo in discussione (e involontariamente alla berlina) il sistema di intercettazione russo, prevalse purtroppo la seconda. Petrov fu pensionato prematuramente e non gli venne nemmeno concesso “l’onore” del passaggio al grado di colonnello, prassi normalmente prevista.
Petrov si ritirò in un modestissimo appartamento a Frjazino, una piccola cittadina a una trentina di Km a nord-est di Mosca dove visse in povertà e si spense, provato da una lunga malattia, l’anno scorso all’età di 78 anni nella più completa indifferenza. Nessun ringraziamento, nessuna onorificenza, nessun ricordo per quel piccolo grande uomo che salvò il mondo. Durante le interviste che lo dipingevano come un eroe ebbe a dire : “Noo!, che ho fatto? Niente di speciale, solamente il mio lavoro. Ero l’uomo giusto al posto giusto al momento giusto».


Ringrazio l’amico Giorgio Catania per avermi segnalato questa storia per ricordare l’eroe dimenticato. Jean de La Bruyère, scrittore francese del 600, riassume molto bene i motivi di questa dimenticanza: “Pressoché nessuno si accorge da sé del merito di un altro. Gli uomini sono troppo occupati di se stessi per concedersi lo svago di cogliere o distinguere gli altri; perciò accade che con un grande merito e una modestia più grande si possa rimanere a lungo ignorati.” E così fu!

Marco Boldini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/


MARCO BOLDINI
Nato nel 1969 sposato, 3 figli e il gatto Balthazar, 47 anni ma in realtà ventisettenne con vent’anni di esperienza, cittadino del mondo e milanese di nascita ma miazzinese e, più recentemente, tainese di adozione. Volubile e curioso cerco quando posso di fuggire dalla noia e dalla routine, ho potenzialmente sempre la valigia aperta, pronto a passare da un aeroporto all'altro, a conoscere lingue, persone, culture e paesi diversi che ritraggo in maniera dilettantistica con la macchina fotografica. Amo in uguale maniera la montagna, che ti parla con i suoi silenzi e ti regala indimenticabili albe e romantici tramonti; da qui forse l’interesse per questo blog.

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