sabato 21 marzo 2015

il genocidio armeno: 100 anni di silenzio

LIBRI. “Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti”

CLAUDIA MILIA - “Il genocidio Armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti” (Arkadia Editore, 2015 – Euro 15,00). Un libro di Alessandro Aramu, Gian Micalessin, Anna Mazzone. Foto di Romolo Eucalitto. Prefazione di Raimondo Schiavone. Scritti di Giancarlo Pagliarini, Suren Manukyan (vice direttore del Museo del Genocidio Armeno a Yerevan), Sargis Ghazaryan (ambasciatore della Repubblica di Armenia in Italia) e Hovakim Manukyan (Direttore dell’Ufficio per le questioni ecclesiastiche della Santa Sede di Etchmiadzin). Il libro uscirà in tutta Italia il prossimo 1 aprile ed è promosso dal Centro Italo Arabo Assadakah con la collaborazione dell’Ambasciata della repubblica di Armenia in Italia e dall’agenzia di stampa nazionale Armenpress.
***
La notte del 24 aprile 1915 iniziava l’orrendo e sistematico sterminio del popolo armeno nei territori dell’Impero ottomano da parte dei turchi musulmani. In un solo mese, più di mille intellettuali, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e perfino delegati al Parlamento furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada. Nelle marce della morte, centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento. Alla fine gli armeni cristiani massacrati furono circa un milione e mezzo.
A distanza di 100 anni da quel genocidio, il primo del secolo scorso, un giornalista italiano, Alessandro Aramu, e un importante fotografo di cinema, Romolo Eucalitto, incontrano a Yerevan, la capitale armena, gli ultimi sopravvissuti di una tragedia che la Turchia ancora oggi si rifiuta di riconoscere. Una testimonianza straordinaria, con una ricca documentazione fotografica, da parte di chi ha vissuto in prima persona le persecuzioni, le violenze e l’esilio forzato, lontano dalla patria negata. Un reportage che dal passato arriva fino ai giorni nostri, per comprendere come l’Armenia contemporanea, attraverso le nuove generazioni, affronti la sfida della memoria condivisa come elemento di identità e di appartenenza a un popolo.
Oggi gli armeni rischiano di subire un nuovo genocidio in Medio Oriente, da parte dei fondamentalisti islamici dell’ISIS. Nella seconda parte del volume, Gian Micalessin, inviato di guerra de Il Giornale, racconta la sua esperienza in Siria, con una serie di reportage dalle città di Aleppo e Qamishli dove i cristiani patiscono più di altri la furia di una violenza che ha radici lontane. Il saggio vede la partecipazione di giornalisti, storici e intellettuali italiani e armeni, tutti impegnati a raccontare un secolo di storia del genocidio dimenticato. Infine la contemporaneità del Nagorno Karabakh e le tensioni tra Armenia e Azerbaigian in uno scritto della giornalista Anna Mazzone.
AUTORI
Alessandro Aramu (1970). Giornalista professionista. Laureato in giurisprudenza è direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013) e Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia Editore 2014). Fa parte del Centro Italo Arabo Assadakah ed è vicepresidente del Coordinamento nazionale per la pace in Siria.
Gian Micalessin (1960). Giornalista italiano. Dall’inizio degli anni Ottanta incomincia a lavorare come inviato di guerra. Scrive per Il Giornale. Ha realizzato reportage al seguito dei mujaheddin afgani che combattono l’occupazione sovietica, poi realizza documentari e reportage dalle principali aree di crisi e di conflitto del mondo: dall’Iraq, dalla ex Jugoslavia, dall’Algeria, dal Ruanda durante il genocidio dei Tutsi, dall’epicentro del morbo dell’ebola in Zaire e dalla Cecenia durante le fasi più calde della guerra tra l’esercito russo e la guerriglia cecena.Dalla fine degli anni ’90 segue con particolare attenzione le questioni vicino-orientali, il conflitto israelo-palestinese e l’Iran Per la carta stampata ha collaborato con alcune fra le più importanti testate internazionali come il Corriere della Sera, Repubblica, Panorama, Libération, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review. Ha inoltre lavorato per stazioni televisive nazionale e internazionali fra cui (CBS, NBC, Channel 4, TF1, France 2, NDR, TSI, RaiNews24, RaiUno, Rai 2, Canale 5, La7).
Anna Mazzone giornalista freelance, direttore della rivista Formiche e del semestrale in lingua inglese Anthill.eu assieme a Jean-Paul Fitoussi, collabora quotidianamente con il sito di Panorama, per la rubrica dedicata all’attualità dal Mondo. Ha studiato a Tokyo, specializzandosi in Sociologia politica giapponese e nel 2011 ha realizzato un documentario per Jetlag di SkyTg24 sul Nagorno Karabakh, lo Stato sospeso (e conteso) tra l’Armenia e l’Azerbaijan.
Romolo Eucalitto (1949). Fotografo, in attività dagli anni Settanta, ha collaborato con i più importanti registi italiani. Numerosi i titoli di film i cui set fotografici portano la sua firma. Negli ultimi anni ha stretto un sodalizio con altri due mostri del cinema italiano: Carlo Verdone e Ferzan Ozpetek. Ha curato la sezione fotografica nel libro “Lebanon”, reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012).

fonte: alfredodecclesia.blogspot.it

lunedì 16 marzo 2015

lavoratori spacciati, grazie alla Cgil che si è arresa a Renzi

Prima il grande corteo di Torino, con decine di migliaia di persone che hanno sfidato un tempo inclemente per ribadire il proprio sostegno al movimento No-Tav.  Poi la dimostrazione a Roma contro Salvini, «il lepenismo in salsa leghista e Casapound». E infine la prima manifestazione sindacale, a Milano, contro il Jobs Act dal varo dei decreti attuativi, «fatta apposta nella città ove si sperimenta quella schiavitù a tempo determinato che è il lavoro gratis per l’Expo». In tutti questi appuntamenti, ricorda Giorgio Cremaschi, già dirigente Fiom, la Cgil era assente. «È un dato costante di tanti momenti di lotta di questi mesi: la Cgil non vi partecipa». Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, che aveva suscitato una mobilitazione persino inaspettata nel mondo del lavoro, il gruppo dirigente del principale sindacato italiano «è ripiombato nella passività neghittosa che ne aveva caratterizzato tutti i comportamenti precedenti». Così, il mondo del lavoro «continua a precipitare di gradino in gradino, in una caduta che sembra inarrestabile e che ci ha fatto diventare il paese portato ad esempio nella distruzione dei diritti».
In poco tempo, continua Cremaschi su “Micromega”, abbiamo avuto il sistema pensionistico più feroce del continente, con l’età pensionabile più elevata: «La nostra si avvicina sempre più ai 70 anni, mentre l’austera Germania la fa scendere a 63 e la Giorgio CremaschiFrancia la mantiene a 60». Mentre consolidiamo 6 milioni di disoccupati, «l’orario di chi un lavoro ancora ce l’ha cresce inesorabilmente: lavoriamo quasi 200 ore all’anno più dei tedeschi e 100 in più dei francesi». Idem i salari: quelli italiani «hanno avuto la dinamica peggiore del continente, cioè son calati di più come reale potere d’acquisto e a volte anche in valori assoluti». Unica eccezione, non certo consolante, la Grecia: «Che, per altro, se dovesse davvero definire per legge il salario minimo a 750 euro mensili, sopravanzerebbe molte regioni del nostro Mezzogiorno». Infine, con il Jobs Act abbiamo raggiunto la meta di avere il mercato del lavoro più flessibile del continente: «La libertà di licenziamento, la precarizzazione diffusa e incentivata, il potere di degradare il lavoratore e di controllarlo a distanza, l’appalto selvaggio e le cooperative di sfruttamento, l’elenco degli atti di ferocia contro il lavoro autorizzati qui da noi è interminabile».
I provvedimenti di Renzi «chiudono un percorso durato decenni, che alla fine ha portato il dipendente alla completa mercé dell’impresa», prosegue Cremaschi. «Come ha detto Crozza in Tv, i padroni non erano così felici dall’epoca di Kunta Kinte. La nostra caduta è stata la più rovinosa del continente, siamo diventati un esempio negativo per i diritti e le lotte sociali, siamo diventati il paese crumiro d’Europa». La Cgil? «Non pare intenzionata ad interrogarsi sulle ragioni di questa disfatta, ma soprattutto neppure a riconoscerla e a reagire ad essa». Il sindacato considerato più forte d’Europa «vive in una ritirata permanente che non può che condurre alla resa». Eppure non ha alcun feeling con Renzi, come invece la Cisl. «Neppure con il primo ispiratore delle politiche del lavoro del presidente del consiglio, neppure con Sergio Marchionne, a differenza della Cisl che invece lo applaude, la Cgil va d’accordo. Tuttavia il dissenso Cgil appare sempre più impotente». Per Renzi, secondo Cremaschi, una simile opposizione è la migliore augurabile: «La Cgil dice no ai suoi provvedimenti, ne lamenta tutto il male Crozza-Renzipossibile, ma poi non li contrasta davvero. È il modo migliore per dimostrare che il sindacato non conta nulla e fa solo proteste di facciata per ragioni d’immagine». Così, «Renzi ci va a nozze».
La questione non è solo quella della quantità e continuità delle lotte, che pure esiste. Il problema di fondo, aggiunge Cremaschi, è che il linguaggio e i comportamenti concreti dei dirigenti della Cgil non sono di opposizione. «Pensiamo allo sciopero di soli cinque lavoratori tra i comandati per lo straordinario a Pomigliano. Succedeva anche negli anni ‘50 che gli scioperi in Fiat fallissero clamorosamente. Ma la Cgil di allora non aveva difficoltà a dire che quei lavoratori non erano liberi di decidere perché in Fiat c’era il fascismo». Pochi giorni fa un servizio del Tg7, evidentemente sfuggito alle maglie della censura di regime, presentava una immagine agghiacciante della condizione dei lavoratori di Pomigliano: alle sei del mattino, le telecamere inseguivano operai a cui l’intervistatore chiedeva un parere sugli straordinari. «Domanda cautissima, non si chiedeva né un giudizio su Marchionne, né altro di compromettente. Eppure fuggivano tutti, come sudditi in uno Stato di polizia». Per Cremaschi, ormai, «nei luoghi di lavoro, non solo in Fiat, dilaga il fascismo aziendale, che con il Jobs Act viene istituzionalizzato. Questo la Cgil dovrebbe denunciare con tutta la forza che ha. E invece non lo fa».
Il gruppo dirigente del sindacato sostiene che il governo agisca sotto dettatura della Confindustria: è vero, «ma poi non si scontra per niente con gli autori di quel dettato». Anzi: con gli industriali, insieme a Cisl e Uil, la Cgil «continua a voler applicare l’accordo incostituzionale del 10 gennaio 2014, che sancisce che chi non firma accordi non può neppure partecipare alle elezioni delle rappresentanze aziendali». Alla Telecom, i tre sindacati maggiori «hanno firmato un accordo che applicava il Jobs Act prima ancora dei decreti attuativi e per fortuna i dipendenti hanno espresso un clamoroso no». Poi c’è «l’accordo scandaloso che autorizza il lavoro gratis per quella notoria impresa di beneficenza che è Expo», accordo che «ha la firma di Cgil, Cisl e Uil». E di fronte a un presidente del Consiglio che «minaccia i lavoratori della Scala perché vogliono festeggiare il Renzi e CamussoPrimo Maggio», le flebili parole dei dirigenti della Cgil «son state più rivolte ad auspicare una sottomissione dei lavoratori che un rifiuto della prepotenza reazionaria del capo del governo».
Proclami roboanti, ma poi un atteggiamento mite: troppe contraddizioni. Le ragioni? «Una è la complicità con il sistema delle imprese, che non a caso ha fatto sì che quando la Fiom si mise di traverso in Fiat, apparisse come qualcosa di diverso dalla organizzazione di cui fa parte». La seconda, anche più forte, «è che questa Cgil non può rompere con il Pd neppure se il suo segretario presidente la prende ogni giorno a pesci in faccia». Il corpo della struttura e degli apparati della Cgil «soffre e persino odia Renzi», ma lo fa «nella condizione di spirito e di sostanziale impotenza della minoranza Pd». E così, anche «nelle amministrazioni locali, negli enti pubblici, nelle cooperative, ovunque», la Cgil potrebbe, volendo, «far vedere i sorci verdi al renzismo», e invece «continua a collaborare come sempre». Per Cremaschi, «rompere davvero con la Confindustria che festeggia il Jobs Act, fare la stessa cosa con il Pd renziano e il suo sistema di potere, sono le due condizioni indispensabili per costruire una opposizione efficace alla politica che sta distruggendo i diritti del lavoro. Ma sono anche le uniche condizioni a cui l’attuale struttura della Cgil non vuole e non può sottostare». Dilaniata tra il voler contrastare Renzi e l’incapacità di farlo davvero, conclude Cremaschi, «la Cgil archivia lo sciopero generale e torna all’abulia confusa che oramai la possiede». Per il mondo del lavoro italiano, «questo stato passivo dei grandi sindacati è parte del disastro, è un vuoto che non si riempie con altro».

fonte: www.libreidee.org

domenica 15 marzo 2015

finanziamenti

L'entrata in guerra degli USA nel 1917 produsse radicali mutamenti nei destini bellici (e non solo) europei. Come ogni grande mossa strategica tra grandi potenze, dietro l'intervento si nascondevano interessi geopolitici e finanziari.
1917: IL GRANDE GIOCO AMERICANO
di MASSIMO IACOPI
La fine del 1916 determina per gli Europei la conclusione di un processo evolutivo che si conclude con la perdita del controllo dei loro destini. Questa "perdita" avviene per tre ragioni principali.
In primo luogo, le promesse fatte dai belligeranti dei due blocchi alle potenze di secondo rango, per convincerle a entrare in guerra al loro fianco, hanno trasformato la conclusione del conflitto in una questione di sopravvivenza per diversi stati multinazionali (imperi austro-ungarico, ottomano e russo). In secondo luogo, la configurazione dei blocchi avversi compromette ormai ogni possibilità di pace separata. Da ultimo, qualsiasi nuova combinazione interna all'Europa sembra esaurita: una rottura dell'equilibrio delle forze non può condurre a un vantaggio decisivo per nessuno dei due schieramenti.
Di conseguenza, è a partire dal 1916 che i fattori esterni all'Europa prendono il sopravvento sui fattori interni; un fatto, questo, che determinerà l'intervento americano.

Le cause dell'entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco dell'Intesa sono note. Il 1° febbraio 1917 la Germania scatena la guerra sottomarina a oltranza allo scopo di far 
Clicca sulla immagine per ingrandire
L'affondamento del Lusitania sancì l'ingresso degli USA nel conflitto
cadere l'Inghilterra nella carestia e nella crisi economica e di costringerla a chiedere la pace. Il 24 febbraio gli Inglesi comunicano agli Americani un telegramma cifrato che essi dicono di aver intercettato il 19 gennaio. In questo telegramma diretto all'Ambasciata tedesca in Messico, il Segretario di Stato tedesco agli Affari Esteri, Zimmerman, esprime la sua intenzione di proporre «una alleanza con il Messico. che potrà in tal modo riconquistare i territori perduti del Nuovo Messico, del Texas e dell'Arizona». Il 1° marzo 1917 il Presidente Wilson rende pubblico il telegramma, provocando un moto di indignazione. In tal modo egli riesce a modificare l'atteggiamento dell'opinione pubblica americana, fino ad allora in gran parte contraria all'ipotesi della guerra. Il 2 aprile 1917 il Congresso vota l'entrata in guerra contro la Germania e gli Imperi Centrali. Ma a causa della indisponibilità di un esercito adeguato alle esigenze e di una flotta per trasportarlo e rifornirlo, gli effetti militari di tale decisione non potranno farsi sentire prima di un anno.
Durante questo lasso di tempo, all'est, la Germania può rallegrarsi della destabilizzazione del suo nemico russo. L'8 marzo 1917 (febbraio secondo il calendario russo) scoppia una prima rivoluzione che si conclude con la rapida abdicazione (15 dello stesso mese) dello zar. Fra la primavera 1917 e il 1918 i Tedeschi non sono mai stati così vicini alla vittoria. Nell'aprile 1917, l'ammiraglio britannico Jennicoe informa l'ammiraglio americano W. Sims, inviato in Europa, che egli teme di non poter impedire il trionfo della guerra sottomarina. Ma quello che è peggio, la ritirata russa durante l'inverno del 1917, conseguente alla vittoria bolscevica, dà ai Tedeschi una superiorità numerica del 20% sul fronte ovest.

Nel momento in cui sulla scena della storia immense masse umane si autodistruggono, un piccolo numero di uomini radunati intorno al presidente statunitense Wilson e al governo inglese contribuisce a orientare le decisioni. Insieme alle motivazioni ideali, la potenza dell'alta finanza svolgerà un ruolo importante nel portare gli Stati Uniti in guerra.
Tre banche di New York concentrano la maggior parte degli interessi finanziari statunitensi: la Kuhn Loeb and Company, prima banca mondiale; la J.P. Morgan (estensione americana della Rothschild londinese); la National City Bank (banca della dinastia dei Rockfeller). I loro dirigenti sono Benjamin Strong per la Morgan, Frank A. Vanderlip e Cleveland H. Dodge per la National City Bank, Salomon Loeb e i fratelli Warburg e Schiff per la Khun. Ad alcuni di essi Wilson deve tutto: la carica di Governatore del New Jersey nel 1910 e la "distruzione mediatica" del suo avversario repubblicano William Taft nella corsa alle presidenziali. E' anche grazie a essi che il principale consigliere di Wilson, il colonnello House, ha potuto organizzare, in quanto braccio americano della Tavola Rotonda (società iniziatica inglese di idee mondialiste, vicina agli interessi dei Rothschild a Londra, fondata, tra gli altri, da Sir Cecil Rhodes e Lord Alfred Milner ), il Council for Foreign Relations (uno dei più antichi Think tank americani), al quale appartiene un altro influente consigliere di Wilson, Justice Louis Brandeis, Presidente del comitato provvisorio sionista.
Clicca sulla immagine per ingrandire
Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti dal 1913 al 1921
Attraverso il Federal Reserve Act del 1913, Wilson ha dato a questi uomini ciò che essi attendevano da tanto tempo: una banca centrale per unificare il capitale americano. Ma il progetto degli "uomini del presidente" va ben al di là dell'unità del capitalismo a stelle e strisce. Si tratta in effetti di fare dell'America il motore di una nuova mondializzazione, fatto che implica la necessità di rompere con la regola del vecchio equilibrio di potenze e di favorire una riorganizzazione della geopolitica mondiale intorno alla finanza anglo-americana. Per alcuni si tratta anche di punire gli autocrati russi e di farla finita con l'aristocrazia austro-tedesca che ribadisce in ogni circostanza la supremazia del "guerriero" sul "mercante".
Il 22 agosto 1914 il colonnello House aveva già lasciato intravedere i possibili sviluppi: «Se gli Alleati trionfano, è l'egemonia russa sul continente europeo. Se al contrario, la Germania esce vittoriosa, saremo per diversi anni sotto l'indicibile giogo del militarismo tedesco». Occorre dunque silurare da un lato la potenza russa e dall'altro la potenza tedesca.

Il primo atto di questa politica consiste nel legare finanziariamente l'America e gli alleati occidentali. Certo, nell'agosto 1914 il governo americano aveva affermato che la concessione di crediti ai belligeranti era incompatibile con la neutralità. Ma questo atteggiamento non durerà più di tre mesi. Fra il novembre 1914 e il novembre 1916 gli Stati dell'Intesa ricevono, sotto forma di apertura di crediti o di prestiti, circa 1930 miliardi di dollari, mentre la Germania ne riceve meno di 5 miliardi. Da sola la Banca Morgan concentra l'85% delle ordinazioni inglesi e francesi, che ripartisce fra i produttori, fornendo anche i crediti necessari ai pagamenti.
Il secondo atto della stessa politica concerne la distruzione dello zarismo russo attraverso il finanziamento della rivoluzione bolscevica. Non si riesce a comprendere appieno questa scelta se non si tiene conto dell'ostilità che alcuni emigrati e il movimento sionista manifestano nei confronti della Russia. Questa ostilità trova il suo fondamento nella situazione degli ebrei russi, costretti a vivere nei ghetti, sottoposti a un regime discriminatorio e a periodici massacri (pogrom) scatenati dalle folle. Il duca Ernesto di Coburgo racconta nelle sue memorie che al momento della guerra di Crimea (1854-55) Lord Rothschild gli aveva confessato che in quel momento egli era pronto a versare qualsiasi somma nella lotta contro la Russia.

La rivoluzione russa si divide in due fasi. La prima è la rivoluzione di febbraio (marzo secondo il nostro calendario) che porta all'abdicazione dello zar Nicola Romanov (quel giorno il corso del rublo ed i valori russi salgono alla Borsa di Parigi) e a un governo rivoluzionario democratico, che associa al potere liberali e menscevichi. Inglesi e Francesi sostengono i democratici e forniscono loro i fondi necessari. Essi hanno tutto l'interesse a mantenere la Russia nel conflitto, obiettivo conseguito in aprile. Miliukov, Ministro degli Affari Esteri del governo provvisorio, assicura che la guerra sarà condotta fino alla vittoria. Questa assicurazione preoccupa gli uomini di Wilson. Se la Russia condivide la vittoria con gli Inglesi, l'esercito russo vittorioso non sarà poi tentato di restaurare lo zarismo? Da qui deriva la seconda fase della rivoluzione, la presa del potere bolscevico del 25 ottobre 1917 (8 novembre), sostenuta sottobanco dalla Germania e dalla finanza newyorkese, che, evidentemente senza mettersi d'accordo, avevano l'interesse comune di vedere la Russia fuori dai giochi.
Il 16 aprile 1917 Lenin e Zinoniev, provenienti dalla Svizzera, arrivano a San Pietroburgo, dopo l'attraversamento della Germania e della Svezia in un "vagone piombato" sotto la protezione combinata dell'Alto Comando tedesco e di Max Warburg, uno dei fratelli di Paul Warburg (della Khun Loeb and Company a New York), che risulta proprietario ad Amburgo della Banca Warburg and Company. Il 17 maggio 1917, Trotski, proveniente dal territorio americano, raggiunge Lenin. Dopo essere stato imbarcato il 27 marzo con più di 250 compagni egli viene immobilizzato per qualche tempo ad Halifax con degli enormi fondi. Ma grazie all'intervento congiunto del colonnello House e di Sir William Wiseman (Khun Loeb and Company), egli può ripartire verso la Russia con un passaporto americano.

La fonte dei fondi ricevuti dai bolscevichi è duplice. Una parte viene dal Governo di Berlino (si conoscono oggi il numero dei conti aperti presso la Reichbank, il 2 marzo 1917, ai nomi di Lenin, Trotski e Koslowsky). Un'altra viene dalla Khun Loeb. Anche i circuiti utilizzati da questi fondi sono ugualmente conosciuti. Allorché Lenin è in esilio in Svizzera, il flusso di denaro va dalla Germania a Zurigo, attraverso la Deutsches Bank. Successivamente il denaro transita da Berlino (Disconto Gelleschaft e Reichbank), da Oslo (DEN Norske Handelsbank) o da Stoccolma (NYA Banken, VIA Banken), verso la Banca Siberiana di San Pietroburgo.
Nel 1917 il finanziere più impegnato nel sostegno ai rivoluzionari è Jacob Schiff, genero di Salomon Loeb, che si vanta dalle colonne del "New York Times" del 5 giugno 1916 di aver strappato al presidente Taft, nel 1911, e dopo una violenta campagna di stampa, la denuncia degli accordi commerciali con la Russia: «Chi dunque se non me, ha messo in movimento l'agitazione che ha costretto poi il presidente degli USA a denunciare il nostro trattato con la Russia ?».
Numerosi sono i documenti che provano l'implicazione della finanza newyorkese nel crollo dello zarismo. Il 19 marzo 1917 Jacob Schiff indirizza un telegramma al Ministero degli Esteri del Governo provvisorio russo (Miliukov): «Permettetemi, in qualità di nemico inconciliabile dell'autocrazia tirannica che persegue senza pietà i nostri correligionari, di felicitare attraverso voi il popolo russo per l'azione che ha appena finito di compiere così brillantemente e di augurare pieno successo ai vostri colleghi di governo ed a voi stesso!».

Le somme messe a disposizione dei rivoluzionari russi, menscevichi e quindi bolscevichi sono state considerevoli. Il 3 febbraio 1949, in piena guerra fredda, Jacob Schiff, nipote del finanziere omonimo, riconoscerà sul "New York Journal" che suo nonno aveva personalmente versato ai bolscevichi 20 milioni di dollari. Fra il 1918 ed il 1922, di fatto Lenin, riconoscente, dispone il rimborso tramite lo stato russo della somma di 450 milioni di dollari in favore della Khun e Loeb and Company.
Il 21 luglio 1917, qualche settimana dopo aver portato il suo paese nella Grande Guerra, Wilson scrive al suo consigliere e confidente colonnello House: «La Francia e l'Inghilterra non hanno sulla pace le stesse nostre vedute. Quando la guerra sarà finita noi li porteremo al nostro modo di pensare, in quanto in quel momento, tra le altre cose, essi saranno finanziariamente nelle nostre mani!».
BIBLIOGRAFIA
  • La grande storia della prima guerra mondiale, di M. Gilbert - Mondadori, 2000
  • La prima guerra mondiale. 1914-1918, di B.H. Liddell Hart - Rizzoli, 2001
  • L'età progressista negli Stati Uniti: 1896-1917, a cura di A. Testi - il Mulino, 1984
fonte: win.storiain.net