mercoledì 28 maggio 2014

la grande abbuffata



FILM COMPLETO

Herbert Pagani


stupri




N. 17 - Ottobre 2006
LE MAROCCHINATE
Aspettavano i liberatori ma arrivò l’inferno
di Sergio Sagnotti
.
La riluttanza e la scarsa memoria del nostro paese, dedita soprattutto ad una sorta di invidia esterofila dei miti altrui, ci fa dimenticare che di martiri, ma soprattutto di eroi, lo stivale ne ha avuti e forse anche più di tutti gli altri paesi dai più ammirati ed invidiati.

Nella nostra nazione sono avvenuti olocausti annegati nell’indifferenza della storiografia per 60 anni e non ancora approfonditi del tutto come le Foibe, il massacro dei bimbi di Gorla e le famose “marocchinate”, gente comune, colpevole solamente di trovarsi al momento sbagliato nella propria casa, mentre erano in atto pulizie etniche, saccheggi, violenze e stupri di ogni genere, compiuti sotto bandiere e vessilli di “liberazione”.

Nel Febbraio del 1944 gli alleati bombardarono l’abbazia di Montecassino, causando la morte di centinaia di civili; raso al suolo il monastero si passò alle cittadine limitrofe e ciò portò alla completa distruzione delle città sottostanti il monastero, Cassino appunto e altri centri urbani rurali del luogo; la stima delle vittime in questa operazione fu di circa 50.000 militari e 10.000 civili.

Ora l’esercito alleato si trovava di fronte alla linea Gustav, una catena umana che tagliava in due parti la nostra penisola, dal tirreno all’adriatico, voluta da Hitler come baluardo di resistenza  tedesca in terra italica.

I continui attacchi frontali delle forze alleate alla retroguardia teutonica, si rivelarono subito infruttuosi e superflui, si decise allora di aggirare la linea nemica e questo compito fu dato dal Gen. Clark, comandante della V armata americana, al Gen. Juin comandante franco-algerino delle truppe francesi (Goumiers) in Italia; ciò perché questi ultimi avevano una maggiore predisposizione al combattimento montano.

Le truppe francesi cominciarono così l’avanzata con l’operazione che prese il nome “Diadem”, prima sottoponendo i tedeschi ad un pesante bombardamento e subito dopo attaccando Monte Faito presso i Monti Aurunci, sguarnendo la linea nemica fino alla valle del Liri, risalirono poi verso il frusinate fino ad assestarsi in Toscana.

Dove passarono però le truppe “liberatrici”, accaddero cose mai viste in quelle terre: stupri, rapine, saccheggi, omicidi, evirazioni e torture furono all ordine del giorno…

Il corpo di spedizione francese era composto da circa 110 mila unità per lo più marocchini, algerini, tunisini e senegalesi; essi si chiamavano “Goumiers” in quanto erano organizzati in “Goums”, gruppi composti da una settantina di uomini per lo più legati da parentela.

Appena sbarcati in Italia i Goumiers fecero subito vedere di che pasta erano fatti, in Sicilia, infatti, essi cominciarono a razziare e sequestrare donne del luogo considerandole “bottino di guerra” e le portarono via come prostitute. I primi episodi si registrarono sulla statale Licata-Gela, come ci dice lo storico Fabrizio Carloni, per poi proseguire a Capizzi, tra Nicosia e Troina ,qui i franco-africani si abbandonarono addirittura a stupri di massa: “…le consideravano bottino di guerra e le portavano via sghignazzando e trattandole con un linguaggio da trivio, come se fossero delle prostitute…”.

Si proseguì con lo stesso comportamento nei paesi di Mastrogiovanni (dove madri e figlie venivano stuprate e poi passate per le armi) , Lanuvio, Velletri ad Acquafondata dove ci fu addirittura un rastrellamento di donne da violentare.

La vergogna però che si compì nelle battaglie in ciociaria toccò apici clamorosi e devastanti, infatti il comandante francese Juin per incentivare e caricare le sue truppe prima della battaglia, sembra  che pronunciò il seguente discorso:

Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete…”.

I suoi Goumiers non se lo fecero ripetere due volte…


Il loro premio cominciarono a riscuoterlo nella cittadina di Esperia, dove circa 3.500 donne, tra gli 8 e gli 85 anni, vennero stuprate e, nella più benevola delle sorti uccise, circa 800 uomini sodomizzati tra cui un prete (Don Alberto Terilli) che morì poco dopo, i parenti delle vittime o coloro che cercarono di difendere le donne vennero impalati…
Gli altri alleati erano al corrente di ciò che stavano facendo i franco-africani?

Le fonti sembrano dirci di sì, in quanto, già precedentemente, gli ufficiali alleati avevano richiesto in patria “l’invio” di prostitute al seguito delle truppe, per placare i desideri dei propri soldati; sapevano anche perché i Goumiers francesi avevano un’altra peculiarità , quella di evirare i soldati nemici e soprattutto quella di vendere, a quei  soldati americani bramosi di ottenere elogi e galloni senza troppo rischiare, i soldati tedeschi catturati, al prezzo di 500/600 franchi per un soldato semplice e di circa il triplo per un ufficiale.

Quindi secondo alcuni storici tutti sapevano cosa stesse accadendo, De Gaulle in primis, ma soprattutto chi era sul posto come il Gen. Harold Alexander ,che molti dicono ricevette la richiesta di permesso di “carta bianca” da parte di Juin, limitandosi a contrattare con egli le 50 ore di dominio “anarchico” sulla popolazione civile. In una nota della Presidenza del Consiglio ciò si evidenzia ancora di più infatti si legge che gli ufficiali francesi: “lungi dall'intervenire e dal reprimere tali crimini hanno invece infierito contro la popolazione civile che cercava di opporvisi…” in quanto gli accordi prevedevano “mediante un patto che accorda loro il diritto di preda e saccheggio” “nella generalità dei casi essi preferiscono ignorare e da qualcuno è stato anche detto che agli irregolari marocchini spetta il diritto di preda”.

La furia franco-coloniale non si placò e continuò nelle cittadine di Ceccano, Supino, Sgurgola e  paesi limitrofi (dal 2 al 5 giugno 418 stupri su uomini, donne e bambini, 29 omicidi, 517 furti) una nota dei Carabinieri ricorda la bestialità di quegli eventi:“infuriarono contro quelle popolazioni terrorizzandole. Numerosissime donne, ragazze e bambine (...) vennero violentate, spesso ripetutamente, da soldati in preda a sfrenata esaltazione sessuale e sadica, che molte volte costrinsero con la forza i genitori e i mariti ad assistere a tale scempio. Sempre ad opera dei soldati marocchini vennero rapinati innumerevoli cittadini di tutti i loro averi e del bestiame. Numerose abitazioni vennero saccheggiate e spesso devastate e incendiate”.

Starà poi alle truppe alleate franco-senegalesi completare “l’opera” infatti, prima di essere rimpatriate, infierirono ancora sulla popolazione civile in quel di Toscana per lo più nell’isola d’Elba (dopo essere passati anche in Val d’Orcia e nel viterbese).

Le responsabilità di quei tragici giorni della nostra storia, devono ricadere anche su alcuni uomini politici italiani di allora, perché, non bisogna dimenticare, che l’Italia badogliana dichiarò guerra alla Germania, diventando di fatto collaborazionista dello Stato Maggiore alleato; non meno gravi le responsabilità del governo di Unità Nazionale di Ivanoe Bonomi che non sollevò mai una protesta ufficiale per le cosiddette “marocchinate”, come del resto i governi che lo hanno succeduto per 50-60 anni e per i quali questo è sempre stato un argomento tabù e politicamente scorretto, in virtù di quella che Renzo De Felice amava definire “vulgata resistenziale”…

Dopo la guerra il corpo di spedizione francese riconobbe alle vittime un indennizzo che andava dalle 30 alle 150 mila lire a donna stuprata, tali somme vennero detratte dai danni di guerra dovuti dall’Italia alla Francia; dal canto suo il governo italiano pagò alle vittime una pensione minima e a tempo.

La cifre di queste nefandezze non sono molto chiare, si parla di circa 60.000 donne stuprate, numero che si basa sulle richieste di indennizzo ricevute; di queste vittime, una grande percentuale rimase affetta da malattie come la sifilide o blenorragia, molti furono i figli nati dai rapporti coatti, la maggior parte dei mariti e dei compagni furono contagiati dalle mogli, migliaia di omicidi, parte dei quali effettuati ai danni di chi “osava” difendere l’onore delle donne, l’81% dei fabbricati distrutti, il 90% del bestiame sottratto, così come i gioielli e ogni altro tipo di bene materiale, evirazioni, cittadini impalati, bambini (di entrambi i sessi), uomini, sacerdoti ed anche animali sodomizzati…
Ad aggiungersi a questi dati strazianti, per le vittime ci fu anche la beffa di vedersi come delle persone emarginate dalla società, non ci furono quasi mai nei loro confronti degli atti di solidarietà, molte donne vennero ripudiate, stentarono a trovare un marito ed un lavoro e molte furono quelle che non riuscirono a convivere con questo fardello suicidandosi.

Ecco una testimonianza dell’epoca:

I soldati marocchini che avevano bussato alla porta e che non venne aperta, abbattuta la porta stessa colpivano la Rocca con il calcio del moschetto alla testa facendola cadere a terra priva di sensi, quindi veniva trasportata di peso a circa 30 metri dalla casa e violentata mentre il padre (...) da altri militari veniva trascinato, malmenato e legato a un albero. Gli astanti terrorizzati non potettero arrecare nessun aiuto alla ragazza e al genitore in quanto un soldato rimase di guardia con il moschetto puntato sugli stessi…
Perché ricordare in alcuni casi è un dovere…


Riferimenti bibliografici:

Arrigo Petacco, La nostra guerra.
Tommaso Baris, Montecassino 1944, scatenate i marocchini tratto da Millenovecento, n. 14, dicembre 2003.
Tommaso Baris, Fra due fuochi.
Luciano Garibaldi, L'assalto alle ciociare, in periodico "Noi", 1994”.
Alberto Moravia, La Ciociara.
F. Majdalany, La battaglia di Cassino.
Gennaro Sangiuliano, Quelle marocchinate di cui nessuno parla. Artcolo tratto da “L’Indipendente” del 19 maggio 2006


fonte: www.instoria.it

ma il mondo ha capito che Obama è più bugiardo di Bush

Caro Obama, ci hai deluso. Firmato: 93 paesi, dalla A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe, passando per Europa, Brasile, Medio Oriente, ex Urss, Sudamerica e Africa. Durante gli anni di Bush, le popolazioni di tutto il mondo erano inorridite dalle aggressioni, dalle violazioni dei diritti umani e dal militarismo degli americani. Nel 2008 solo una persona su tre, in tutto il mondo, approvava l’operato dei leader Usa. L’avvento di Obama trasmise un messaggio di speranza e cambiamento, e nel 2009 il monitoraggio della Gallup (Usglp, Us Global Leadership Project) registrò il forte consenso dell’opinione pubblica mondiale: il 49% del campione aveva fiducia nella nuova leadership statunitense, che però è andata riducendosi non appena Obama è passato dalle promesse ai fatti. Domanda: lei approva o disapprova la leadership Usa? In alcuni paesi, «un gran numero di persone ha rifiutato di rispondere e di esprimere un qualsivoglia parere, mascherando la disapprovazione dietro ad un silenzio dettato dalla paura», spiega Nicolas Davies.
I dati più suggestivi vengono dall’Africa, continente dove Obama aveva sempre goduto di alti indici di gradimento: la caduta delle grandi speranze Obama e Bushnei suoi riguardi può spiegare, almeno in parte, il minor consenso in 28 dei 34 paesi esaminati, scrive Davies in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ma non può spiegare perché, ora, in 15 paesi su 27 – ovvero nella maggior parte del continente nero – le persone considerano la leadership di Obama peggiore di quella di Bush (compreso il Kenya, il paese di origine della famiglia Obama). Va meglio in Europa, dove più forte era stata l’ostilità verso Bush. Ma attenzione:  «Le interviste europee della Gallup, nel 2013, sono state fatte prima delle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio della Nsa, e prima che l’assistente segretario di Stato, Victoria Nuland, organizzasse il colpo di stato in Ucraina, trasformando questo paese nell’ultimo campo di battaglia di quella guerra globale americana», cioè il tipo di guerra «che aveva alienato il consenso di così tanti europei all’amministrazione Bush».
Le promesse di speranza e di cambiamento fatte da Obama nella campagna presidenziale del 2008 «sono progressivamente sbiadite, nei titoli dei giornali di tutto il mondo, esattamente come in America». La sua politica estera e militare? «E’ clamorosamente fallita nel segnare una rottura con le politiche di Bush». Obama «non è riuscito a chiudere Guantanamo, né a “contenere” gli alti ufficiali statunitensi responsabili dei crimini di guerra». Inoltre ha intensificato la guerra in Afghanistan con 22.000 attacchi aerei e «ha consentito centinaia di illegittimi attacchi di droni in Pakistan, Yemen e Somalia». Sempre Obama «ha ampliato le operazioni delle forze speciali fino all’incredibile numero di 134 paesi, ha lanciato sanguinose guerre “per procura” in Libia ed in Siria precipitando, questi due paesi nel caos, e ha consegnato l’Iraq e l’Afghanistan ai “signori della guerra”». Più operazioni coperte, meno occupazioni militari, più navi da guerra nel Pacifico: Nicolas Daviesun’evoluzione dettata dai fallimenti in Iraq e Afghanistan e dall’ascesa della Cina, più che da una precisa visione della Casa Bianca.
«Il fascino di Obama», scrive Davies, «si è sempre basato più sullo stile che sul merito. Dietro alla maschera del “cambiamento” c’è sempre stata la continuità. Né l’America né le popolazioni globali avrebbero accettato tranquillamente un altro George W. Bush». Quindi, servivano «un volto e una voce cui una popolazione sfibrata avrebbe volentieri dato il benvenuto», ma in grado di garantire, al tempo stesso, «la continuità nel controllo di Wall Street e dell’economia, e la ricerca incessante – ma sempre più sfuggente – del dominio militare americano nel mondo». La suggestione del cambiamento? «Era indispensabile per depistare e porre il bavaglio alla crescente richiesta di un cambiamento effettivo nella politica degli Stati Uniti: è questa la sfida che ha definito il ruolo intrinsecamente ingannevole di Obama come nuovo “ceo dell’America Incorporated”».
I parametri della politica estera Usa dopo la guerra fredda, continua Davies, furono definiti nel 1992, per orientare i leader e aiutarli a sfruttare il meglio il dividendo acquisito con il crollo dell’Unione Sovietica. Furono precisati nel documento “Defense Planning Guidance” redatto dal sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz e dal suo assistente Scooter Libby, come trapelò sul “New York Times” nel marzo del 1992. «Quel documento fu poi sostanzialmente rivisto per oscurare le sue implicazioni a livello di offensiva globale, prima che fosse ufficialmente rilasciato il mese successivo». Il quadro politico delineato da Wolfowitz nel 1992 fu poi codificato nel 1997 da Bill Clinton e poi nel “2002 National Security Strategy”, che il senatore Paul WolfowitzEdward Kennedy definì «un manifesto dell’imperialismo americano del 21° secolo, che nessun’altra nazione può o dovrebbe accettare».
La politica delineata da Wolfowitz nel 1992 stabiliva un ordine mondiale in cui l’esercito statunitense sarebbe stato così schiacciante, e così pronto ad usare la sua forza, che «i potenziali concorrenti sarebbero stati indotti a non aspirare ad un qualche ruolo regionale o globale». Anche gli alleati della Nato sarebbero stati dissuasi dall’agire in modo indipendente dagli Stati Uniti, o dal formare autonomi accordi di sicurezza europea. Quell’impostazione «violava implicitamente il divieto contenuto nella “Carta delle Nazioni Unite” di minacciare o di far ricorso unilateralmente all’uso della forza militare, da parte degli Stati Uniti, contro i “potenziali concorrenti”». Era la fine del cosiddetto “internazionalismo collettivo”, cioè il multilateralismo che aveva permesso agli Alleati, vincitori della Seconda Guerra Mondiale, di dar vita all’Onu come organizzazione deputata a mediare le dispute e scongiurare i conflitti armati.
Durante l’amministrazione Bush, la filosofia “neocon” di Wolfowitz «è uscita dal cono d’ombra ed è diventata un bersaglio della critica mondiale». Le radici dell’aggressione all’Iraq sono state rintracciate nel neoconservatore “Project for the New American Century”, il famigerato Pnac firmato nel 1997 da Robert Kagan e William Kristol, direttore del “Weekly Standard” fondato da Rupert Murdoch. Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz e Libby erano tutti membri del Pnac. «Ma il ruolo della moglie di Kagan, Victoria Nuland, quale leader del team del Dipartimento di Stato e della Cia che ha organizzato il colpo di Stato americano in Ucraina, ha attirato nuova attenzione sul fatto che anche sotto Obama i neocon continuano a detenere posizioni di potere e di influenza», ben insediati in tutte le stanze dei bottoni di Washington, accanto a Obama. La Nuland ha lavorato indifferentemente con Cheney, alla Nato, con Hillary Clinton e John Kerry. E suo marito, Robert Kagan, lavora al Brookings Institution e, insieme a Kristol, ha fondato il “Foreign Policy Robert Kagan e la moglie, Victoria NulandInitiative”, considerato il successore del Pnac. Obama ha citato il suo saggio “The Myth of American Decline” al discorso sullo Stato dell’Unione del 2012.
Un altro neocon molto influente nell’amministrazione Obama è il fratello di Kagan, Frederick, studioso dell’“American Enterprise Institute”, mentre sua moglie Kimberly è presidente dell’“Institute for the Study of War”. «Nel 2009 erano tra i principali sostenitori dell’escalation in Afghanistan, e gli stretti rapporti con il segretario Gates e con i generali Petraeus e McChrystal ha dato loro un’influenza fondamentale nel far prendere ad Obama la decisione di intensificare e prolungare la guerra». L’ex direttore del Pnac, Bruce Jackson, è presidente del “Project on Transitional Democracies”, il cui scopo è l’integrazione dell’Europa dell’Est nell’Ue e nella Nato. Reuell Marc Gerecht, membro della “Foundation for the Defense of Democracies” ed ex agente della Cia in Iran, «è una delle voci più forti che si sono alzate a Washington per sostenere l’aggressione americana alla Siria e all’Iran, e l’abbandono di soluzioni diplomatiche per entrambi i casi». Ancora: Carl Gershman e Vin Weber sono i leader della Ned, “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione che ha pianificato il golpe a Kiev spendendo più di 3,4 miliardi di dollari. Ron Paul ha definito la Ned «un’organizzazione che utilizza i soldi delle tasse statunitensi per sovvertire la democrazia, concedendo finanziamenti a pioggia a partiti o movimenti politici di loro gradimento all’estero».
Per Davies, l’influenza del neoconservatorismo si estende ben al di là della cricca dei neocon che cavalcavano l’amministrazione Bush: gli obiettivi definiti da Wolfowitz nel 1992 «sono stati scolpiti nella pietra, allo stesso modo, da tutte le amministrazioni democratiche e repubblicane: l’obiettivo della supremazia militare degli Stati Uniti è diventato un tale articolo di fede, che le alternative razionali vengono considerate come un sacrilegio o un tradimento». Non ci sono crimini che l’eccezionalismo americano non possa giustificare, dice Davies, e il genuino rispetto per uno Stato di Diritto «è visto come un’impensabile minaccia al nuovo fondamento del potereamericano». Ed ecco il trucco: «L’unico modo attraverso il quale un governo può mantenere una posizione di tale illegittimità, è attraverso l’uso della propaganda, dell’inganno e della segretezza, sia contro il proprio popolo che contro il resto del mondo». Di qui il “modello Obama”, che si è evoluto grazie alle tecniche di marketing e costruzione dell’immagine fiduciaria di un Leo Strausspresidente «trendy, sofisticato, con forti radici nell’afro-americanismo e nella moderna cultura urbana».
Il contrasto tra l’immagine e la realtà, un elemento così essenziale nel ruolo di Obama, rappresenta la nuova conquista della “democrazia gestita”, che gli consente di «continuare ed espandere politiche che sono l’esatto opposto del cambiamento che i suoi sostenitori pensavano di andare a votare», scrive Davies. «Questo regime di segretezza, di inganno e di propaganda è la caratteristica essenziale della filosofia politica neoconservatrice che sta ora guidando la leadership di entrambi i maggiori partiti politici americani». E’ un pensiero che viene da lontano: Leo Strauss, il padrino intellettuale dei neocon – un rifugiato proveniente dalla Germania del 1930 – credeva che qualsiasi sforzo, seppur sincero, per ottenere un “governo del popolo, dal popolo e per il popolo” fosse destinato a finire come la Repubblica di Weimar in Germania, con l’ascesa di Hitler e dei nazisti. Pensava che «qualsiasi sistema in cui il popolo avesse detenuto sul serio il potere sarebbe sicuramente finito in barbarie».
La soluzione di Strauss? E’ il sistema della “democrazia gestita”, ovvero «una forma privilegiata di “alto sacerdozio” o di “oligarchia”, che monopolizza il potere reale e sovrintende ad una superficiale struttura democratica, promuovendo miti patriottici e religiosi per garantirsi la fedeltà del popolo e la coesione sociale». Il politologo Sheldon Wolin lo definisce “totalitarismo invertito”, meno apertamente offensivo del totalitarismo classico e quindi più sostenibile, oggi, nella concentrazione totale della ricchezza e del potere. Paradossalmente, dice Davies, questa nuova forma di totalitarismo “invisibile” è più insidiosa del roboante totalitarismo storico. Nel suo saggio su Strauss e la destra americana, Shadia Drury avverte: «Strauss crede che ogni cultura ed ogni sua implicita forma di moralità siano invenzioni umane, progettate dai filosofi e dagli altri geni creativi per la conservazione del Shadia Drurygregge. Poiché la verità è buia e sordida, Strauss sostiene che il filosofico amore per la verità deve restare un appannaggio riservato a pochissimi».
«Nella loro posizione pubblica – continua Drury – i filosofi devono mostrare rispetto ai miti e alle illusioni che hanno fabbricato per gli altri. Devono sostenere l’immutabilità della verità, l’universalità della giustizia e la natura disinteressata del bene, mentre segretamente insegnano ai loro accoliti che la verità non è che una mera costruzione, che la giustizia deve fare del bene agli amici e del male ai nemici, che il solo bene è il proprio piacere. La verità deve essere gustata da pochi, perché è molto pericoloso che la consumino in molti». Se tutto ciò sembra inquietante, esattamente come lo è l’atteggiamento cinico delle persone che gestiscono l’America di oggi, è perché «stiamo vivendo in un sistema politico neoconservatore e straussiano». E il presidente Obama, «lontano dal rappresentare una sorta di alternativa, è un presidente neoconservatore, anch’egli straussiano». Obama e i Clinton «si sono I Clintondimostrati praticanti più sofisticati e magistrali della politica straussiana di quanto mai lo siano stati Bush o Cheney».
Il report 2013 della Gallup, la prima agenzia di ricerche statistiche del mondo, «è una prova di come si possa ingannare qualcuno per un po’ di tempo, e qualcun altro per tutto il tempo, ma non si può ingannare tutto un popolo per sempre», conclude Davies. «Dietro alla cortina di fumo della democrazia e dei valori americani, il sistema politico statunitense ricicla la ricchezza in potere politico, e il potere politico in ricchezza. Dietro al consumista “Sogno Americano”, un’economia guidata dalle oligarchie economiche e finanziarie sta portando la concentrazione di ricchezza e di potere a un livello che mai i totalitaristi del 20° secolo avevano nemmeno immaginato, sostenuta dalla corrispondente esplosione della povertà, del debito e della criminalizzazione di massa». E dietro a tutto questo «sventola all’infinito la bandiera di una politica estera militarizzata, che distrugge paese dopo paese in nome della democrazia». Se Leo Strauss aveva ragione, «il popolo americano accetterà passivamente questo regime basato sulla propaganda e sull’inganno». Se invece aveva torto, e i cittadini reagiranno, devono sapere che il tempo stringe: «I problemi che affliggono il mondo di oggi non aspetteranno ancora a lungo prima che noi si arrivi a comprendere se Leo Strauss aveva ragione o torto, nella sua oscura e sprezzante visione di chi noi siamo».

fonte: www.libreidee.org

lunedì 26 maggio 2014

Antonio Bassi


ITALIA: RESISTENZA E ATTACCO AL REGIME DITTATORIALE



di Antonio Bassi



E' facile dire "non mollare", "forza siamo con te", quando ci rimette qualcun altro.  Non so se vi rendete conto che Gianni Lannes si occupa di argomenti per la trattazione e la denuncia dei quali molte persone sono state ammazzate, o sono sparite nel nulla. Quindi, ripeto, e' facile fare la guerra quando in prima linea stanno gli altri.
Io sono molto preoccupato, invece, e non voglio assolutamente che accada nulla a questo uomo, forse l'ultimo rimasto del suo genere, e quindi incitarlo a continuare sulla stessa strada mi sembra veramente fuori luogo e pericoloso. Andate voi a fare quel che fa lui con una famiglia alle spalle.

Semmai bisogna pensare ad un cambio di strategia e allora iniziate a fare proposte intelligenti che consentano a tutti di dare un apporto concreto e condividere un po' del peso che Gianni sta portando sulle sue spalle e magari far si che venga tolto il mirino laser dalla sua testa. La mia proposta e' la seguente.

Nelle proteste sono necessari dei leaders e normalmente sono i primi ad essere colpiti personalmente; nel nostro caso, si tratta di Gianni Lannes. Per aggirare questo problema, dobbiamo far si' che la protesta non sia pilotata da una persona ma che origini dalla massa. Se non si e' in grado di identificare il leader, non si può neppure colpirlo. Propongo la creazione in ogni città di gruppi Su La Testa, con sede nelle strade e nelle piazze, dove si comunica a voce e si distribuisce materiale informativo a mano e lontano da occhi indiscreti. Dobbiamo staccarci dalla rete e trovarci faccia a faccia in luoghi pubblici, non identificabili con nessuna persona fisica. Dobbiamo diventare tutti Gianni Lannes, cosicché per colpirci devono colpirci tutti, il che e' impossibile. Ma per far questo, dobbiamo tornare ai vecchi sistemi degli incontri dal vivo, in luoghi pubblici, senza stendardi, senza megafoni, con la sola voglia di raccontare la verità a tutti e creare una grande massa di cittadini informati ed incazzati fuori dalla rete e dal controllo. Pensateci.

fonte: sulatestagiannilannes.blogspot.it


Vi va di formare gruppi Su La Testa in tutte le città' oppure no? Aspetto risposte e idee.
Europee 2014. Ora vedremo se la Le Pen e' solo un burattino oppure vuole davvero dire la sua. Astensionismo in Italia e' aumentato ma non abbastanza, speravo in affluenza sotto al 40%. Lo status quo e' stato mantenuto, ancora una volta il popolo dimostra di non essere degno di essere libero, in quanto incapace di pensare in modo indipendente.

"“…gli effetti della propaganda devono sempre essere rivolti al sentimento, e solo limitatamente alla cosiddetta ragione. [...] la prudenza di evitare qualsiasi presupposto spiritualmente troppo elevato non sarà mai abbastanza grande. [...] La ricettività della grande massa è molto limitata, la sua intelligenza mediocre e grande la sua smemoratezza. Da ciò ne segue che una propaganda efficace deve limitarsi a pochissimi punti, ma questi deve poi ribatterli continuamente, finché anche i più tapini siano capaci di raffigurarsi, mediante quelle parole implacabilmente ripetute, i concetti che si voleva restassero loro impressi ” (da “Mein Kampf” di A. Hitler).

Certe cose non cambiano mai.

domenica 25 maggio 2014

la vita è bella



REGOLE DEL CAMPO

Stefano Rodotà

In tempi di dilaganti spinte verso revisioni costituzionali, si deve malinconicamente concludere che una riforma è già stata realizzata con la pratica cancellazione dell’articolo 54 della Costituzione. Nella prima parte di questo articolo si dice qualcosa che può sembrare scontato: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Costituzione e di osservarne la Costituzione e le leggi”. Ma leggiamo le parole successive. “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Il bel linguaggio della Costituzione non dovrebbe lasciare dubbi. Chi svolge funzioni pubbliche, dunque i politici in primo luogo, non possono trincerarsi dietro l’affermazione di aver rispettato la legge penale, dunque di non aver commesso alcun reato. A tutti loro è imposto un “dovere” costituzionale ulteriore, indicato con parole forti, non equivoche – disciplina e onore. Nel momento in cui questo dovere non viene rispettato, i politici perdono l’onore, e con essi perde l’onore la politica.
Di questo nessuno si preoccupa più, anzi ogni oligarchia, corporazione, grumo d’interesse fa quadrato intorno ai suoi “disonorati”, alza la voce e così Stefano Rodotàcertifica la concreta cancellazione di quella norma della Costituzione. Se così fan tutti, perché meravigliarsi se in una riunione sindacale della polizia si applaudono i condannati e se rimangono senza eco i richiami all’onore provenenti dalla moglie del commissario Raciti assassinato da un ultrà calcistico?  Ma il riferimento all’onore sembra che abbia diritto di cittadinanza solo in questo ambito. L’Italia, infatti, continua a essere percorsa da condannati illustrissimi continuamente applauditi, che stipulano patti sul futuro del paese. In tempi di proclamata volontà di “innovazione” proprio di questo si dovrebbe tenere grandissimo conto. Il vuoto della politica, e la sfiducia che così si alimenta, trovano le loro radici profonde proprio nella scomparsa di un’etica pubblica.
E invece cadono nell’indifferenza politica quei veri bollettini di guerra che, da anni ormai, sono divenute le cronache di giornali e televisioni, che registrano impietosamente, ma purtroppo anche inutilmente, vicende corruttive grandi, medie e piccole, testimonianza eloquente della devastazione sociale. Il ceto politico distoglie lo sguardo da questa realtà scomoda. E nessun richiamo sembra in grado di scuoterlo. Quando un bel pezzo dell’attuale classe dirigente è convenuta in pompa magna ad una udienza papale, ha dovuto ascoltare una dura reprimenda del Papa proprio sul tema della moralità pubblica. Ma pare che l’unica sua reazione sia stata quella dello sconcerto di fronte alla mancanza di ogni cordialità da parte del Pontefice alla fine di quell’incontro. Così, anche questa vicenda è stata rapidamente archiviata, e tutti sono tornati alle usate abitudini, senza dare il pur minimo segno di qualche intenzione di voler dare un’occhiata al dimenticato articolo 54.
(Stefano Rodotà, estratti dell’intervento “Se la politica dimentica il dovere dell’onore”, pubblicato da “Repubblica” il 7 maggio 2014 e ripreso da “Micromega”).

fonte: www.libreidee.org

gli spostati



TUTTI STIAMO MORENDO

venerdì 23 maggio 2014

la radio al tempo del fascismo



la radiofonia italiana durante gli anni del fascismo - I . Il consenso




Il "consenso"



La storia della radio in Italia, inevitabilmente si intreccia con la costruzione del "consenso" al regime fascista.
La più recente storiografia che ha affrontato il problema del radicamento del potere fascista in una società di massa, si trova sostanzialmente d’accordo nell’interpretare il “consenso” al regime come il risultato di una combinazione tra elementi coercitivi ed elementi persuasivi.

La repressione si esprime in un’opera di disintegrazione politica della società e di chiusura di qualsiasi mezzo alternativo di trasmissione di messaggi capaci di formare e diffondere opinioni non autorizzate.

Il periodo che va dal ‘22 al ‘26 è caratterizzato prevalentemente dall’uso di meccanismi coercitivi miranti alla dispersione di qualsiasi forma di opposizione organizzata e alla soppressione, con le leggi eccezionali del ‘26, del pluralismo politico e al soffocamento dell’opinione pubblica antifascista. In questo primo periodo gli strumenti di persuasione sono elementi stessi dell’apparato repressivo in quanto prevale l’uso della forza diretta sugli antifascisti e indiretta sul popolo, forza e coercizione fondamentali per il consolidamento del fascismo.

Nel periodo successivo dal ‘26 al ‘30 prosegue l’opera di scomposizione di quanto resta del mondo politico prefascista e il fascismo priva il popolo di qualsiasi libertà, mentre vengono create e potenziate tutte le organizzazioni politiche e sindacali fasciste, pilastri dell’edificio dittatoriale. In questa fase gli elementi coercitivi prevalgono ancora sugli strumenti di persuasione, vale a dire il consenso al regime è prevalentemente coatto.

Compiuta l’opera di demolizione e di compressione sociale, il regime provvede alla completa riorganizzazione delle forze sociali in forme e strutture nuove, tramite il ministero delle Corporazioni; la Carta del Lavoro sancisce la politica sociale del fascismo. Non è solo la classe lavoratrice a venire inquadrata: tra il '26 - ‘30 si ha una fascistizzazione dell’intera popolazione attraverso molteplici interventi organizzativi, con particolare cura nei confronti delle giovani generazioni. L’Opera Nazionale Balilla afferma il monopolio fascista sulla gioventù; viene introdotto nelle scuole il testo di Stato e gli insegnanti delle scuole elementari e medie vengono obbligati al giuramento; in parallelo procede la fascistizzazione delle Università con la formazione dei Gruppi Universitari Fascisti e poi anche per i docenti universitari scatta il giuramento.

“ A questo periodo, ne segue un altro che dura un decennio fino allo scoppio della seconda guerra mondiale e che ha al suo interno una cesura rappresentata dall’impresa d’Etiopia e dalla proclamazione dell’impero nel 1936, anno in cui il regime sembra raggiungere il massimo consenso compatibile con la persistente passività o tacita ostilità di settori non trascurabili della popolazione e con il massiccio apparato repressivo perfezionatosi dopo le esperienze degli anni venti attraverso il varo dei nuovi codici penali, dei due testi unici di polizia, del potenziamento e della riorganizzazione della polizia politica e di quella segreta (l’Ovra)”(1).

E’ dunque il periodo in cui si potenziano i meccanismi della persuasione per ottenere il consenso funzionale al dominio totalitario sulle masse. “Accanto all’apparato repressivo tipico dei regimi dittatoriali, per tutto il ventennio si vengono sviluppando e perfezionando tecniche moderne di organizzazione, comunicazione e informazione che assicurano al fascismo una presa sempre più forte nella società fino a racchiuderla entro un sistema monolitico, pressoché impermeabile alle influenze esterne”(2). Le nuove tecniche cui si riferisce la citazione sono particolarmente evidenti negli strumenti di informazione di massa, che durante la dittatura fascista vengono appunto potenziate e modernizzate al massimo. L’informazione radiofonica e cinematografica è tra i nuovi mezzi di comunicazioni di massa(3) più utili al regime. Inizia la diffusione regolare del giornale radio, i media intervengono così su un pubblico di cittadini disintegrati politicamente e facilmente vulnerabili dalla propaganda.

Quando nel 1943 crollò completamente l’edificio fascista, l’Italia possedeva un organizzatissimo sistema di stazioni e reti radiofoniche.

“ In realtà il potenziale valore della radio come veicolo di propaganda e di standardizzazione culturale non apparve immediatamente chiaro a Mussolini. Ma una volta riconosciute pienamente le sue implicazioni, i fascisti procedettero a sviluppare e sfruttare la radio facendone uno strumento decisivo della loro politica e del loro lavoro culturale”(4).Bisogna tener conto del fatto che proprio negli stessi anni in cui si consolidava il potere politico di Mussolini sullo Stato italiano, si sviluppava in contemporanea la radio come sistema di comunicazione(5) . Quando il fascismo salì al potere, l’Italia però non possedeva ancora una rete radiofonica di vaste dimensioni; non c’era ancora nessuna emittente che funzionasse continuatamente e la radiofonia si poteva considerare in via sperimentale.

In Italia la radio divenne un mezzo di comunicazione di massa durante gli anni ‘30(6) , anni di presunto massimo consenso raggiunto dal regime. Nel gennaio del 1928 il governo concesse all’Eiar il monopolio di tutte le trasmissioni radio nella penisola. Con il 1930 ogni grande città aveva la sua emittente e, a partire dal 1933, tutti i programmi importanti erano trasmessi sulla rete nazionale. Nel 1935 il regime cercò di rifornire di apparecchi radio anche le zone rurali per inserire i contadini nel circuito del consenso nazionale.

“ Per ampliare l’area di ascolto, che continuava ad essere limitata al ceto medio urbano delle regioni centrosettentrionali, il governo provvide a che fossero installati numerosi apparecchi, con relativi altoparlanti, in tutte le sedi delle organizzazioni del partito (a cominciare dalle case del fascio), nei dopolavori, nelle scuole, negli uffici, nelle caserme, nei principali ritrovi pubblici. Per raggiungere i ceti contadini si diede vita persino a un Ente radio rurale. Questo vasto piano di diffusione dei posti d’ascolto assicurò al regime fascista ampie possibilità di pianificazione del consenso e di mobilitazione psicologica delle masse, come risultò evidente in particolare durante la guerra d’Etiopia tra il 1935 e il 1936 e, successivamente, in occasione dell’intervento italiano nella guerra civile in Spagna e fianco delle forze franchiste. D’altra parte, per rendere permanente l’opera di persuasione e indottrinamento totalitario attraverso i canali radiofonici, venne stabilito con un decreto legge del 26-09-1935 (convertito nella legge 9-01-1936) che il controllo sui programmi dell’Eiar fosse di competenza del ministero di stampa e propaganda”(7).

Il passaggio dell’informazione radiofonica sotto il diretto controllo del ministero per la stampa e la propaganda fu dovuto a due avvenimenti esterni: l’ascesa del nazionalsocialismo in Germania, e la guerra di Etiopia, che mobilitò l’intero sistema della propaganda fascista(8).

<<Rispetto alle due precedenti imprese coloniali italiane la guerra d’Etiopia poté vantare una preparazione politica, militare e psicologica assai più accurata, nella quale l’organizzazione del consenso diveniva un problema essenziale e investiva in primo luogo, oltre che le classi dominanti nella loro totalità, le stesse masse popolari>>(9).

In questa fase il ruolo dell’informazione radiofonica veniva rivalutato. Solo la radio era capace di diffondere con immediatezza il messaggio politico e la ricezione simultanea di esso sull’intero territorio nazionale.

Con il trasferimento dei programmi radiofonici sotto il diretto controllo del ministero per la stampa e la propaganda, la radio diveniva parte integrante dell’organizzazione fascista del consenso. A dirigere questo ministero fu chiamato Galeazzo Ciano (10).

Ciano, già dal 1933, quale capo dell’ufficio stampa, aveva fatto svolgere alcuni studi sui problemi della radio e del cinema e propose a Mussolini di creare una divisione speciale per i due settori; era favorevole a che l’ufficio stampa assumesse il controllo diretto delle radiodiffusioni (11).

Con la guerra d’Etiopia, il regime, mette a punto la propaganda bellica, tanto che l’entrata, nel 1940, in guerra dell’Italia non colse impreparata l’EIAR.

Obiettivo principale del regime fascista fu il controllo della vita culturale italiana; strumento politico amministrativo di tale obiettivo fu il Ministero della Cultura Popolare, che concentrò la sua attenzione sul rapporto tra cultura e masse, producendo attraverso i tre mezzi di comunicazione basilare: stampa, radio, cinema una profonda convergenza tra cultura e propaganda.

Questo obiettivo era alla base di un altro postulato intrinseco del regime, ossia l’integrazione totale di tutti i cittadini in un’unica esperienza nazionale ed il fascismo in quanto sistema totalitario fondo il proprio successo sulla capacità di organizzare un controllo sociale sistematico sia a livello individuale che di gruppo.

Complementare al problema dell’integrazione culturale fu il tentativo di creare una cultura di massa, cercando di porre fine al monopolio culturale delineato dalla tradizionale base di classe medio-superiore. Il regime aspirava a portare la cultura tra le classi diseredata, operai, contadini stimolando l’entusiasmo popolare per la lettura, per il teatro introducendo, elemento fondamentale per la costruzione del consenso, la radio e il cinema nelle campagne.

“ La massa per me non è altro che un gregge di pecore finché non è organizzata. Non le sono affatto ostile. Soltanto nego che possa governarsi da sola. Ma se la si conduce bisogna reggerla con due redini: entusiasmo e interesse" (12). Fondamentale fu quindi per tale obiettivo la geniale intuizione mussoliniana di creare un sottosegretariato per la stampa e la propaganda, successivamente il ministero per la cultura popolare, pilastri della fabbrica del mito mussoliniano, alla cui costruzione si interessò lo stesso Mussolini mettendo alla “testa dei principali mezzi di comunicazione uomini capaci di coltivare e far crescere un culto del duce acritico e martellante” (13).

Ciò di cui soprattutto i fascisti accusavano lo Stato liberale era la mancata nazionalizzazione delle masse, causa questa della indisciplina dei lavoratori italiani e del disordine della politica, lo scopo principale della rivoluzione nazionale era proprio quello di fare aderire le masse allo Stato nazionale.

All’inizio degli anni venti il significato della “nazionalizzazione delle masse” fu interpretato come l’autorizzazione da parte delle squadre delle camice nere a far rigare i lavoratori con le botte; bisogna poi tenere conto che fino alla metà degli anni venti, i mezzi di comunicazione di massa erano troppo poco sviluppati perchè il regime potesse sfruttarli pienamente per inculcare i principi e i valori del fascismo disciplina, obbedienza e lotta: credere, obbedire e combattere. Mancavano inoltre istituzioni sociali periferiche ed intermedie che avrebbero potuto essere convertite per lo scopo; tale carenza fu l’eredità dello Stato liberale capitalista che non era riuscito a formare gente capace di scrivere e di leggere, elementi fondamentali per il sostegno della cultura civile. Motivo per cui l’organizzazione diviene l’elemento principale del regime per costruire il consenso: organizzare una base istituzionale capace di garantire il controllo culturale, organizzare per convincere i riluttanti e scuotere gli apatici, organizzare per ridurre i conflitti di classe, organizzare la vita sociale attraverso tutta una gamma di attività sociali, dallo sport ai metodi di allevare i bambini.

L’organizzazione in senso lato delle masse fu in sostanza una necessità imposta al duce per fronteggiare una resistenza popolare ancora molto forte, condizionata anche dalla grande industria che pretendeva “il principio nettamente fascista della gerarchia e della disciplina in tutti i rapporti economici e sociali” (14).

I fascisti cominciarono a pensare ai problemi culturali in maniera concreta, in seguito alla crisi politica determinata dall’assassinio, da parte dei fascisti stessi, del deputato socialista Giacomo Matteotti. In seguito a tale evento i partiti di opposizione accusarono Mussolini e i suoi seguaci di essere direttamente responsabili del delitto, chiedendo le dimissioni del governo fascista; sentendosi così minacciato Mussolini annunciò in un discorso alla Camera la creazione della dittatura fascista e la soppressione di ogni libertà. L’omicidio Matteotti segna così la fine dello Stato liberale e l’inizio del consolidamento del regime fascista.

In realtà vi era stata da parte di Mussolini una sorta di mossa preventiva per affrontare l’opposizione; difatti nel ‘23 aveva fatto approvare una serie di decreti miranti ad assicurare al governo il controllo sui quotidiani e sui periodici, essendo Mussolini giornalista conosceva benissimo l’uso in positivo ed in negativo della stampa, e della sua capacità di influenzare l’opinione pubblica. Queste esperienze furono utili nel controllare le crisi politiche più acute; difatti durante la crisi Matteotti il Ministro dell’Interno utilizzò ampiamente i decreti per il sequestro della stampa d’opposizione. Bastava l’ufficio stampa mussoliniano a fungere da agenzia stampa, con compiti di controllo della stampa italiana ed estera. Fu dunque la drammaticità della crisi Matteotti ad evidenziare agli ambienti fascisti l'importanza del problema del controllo della cultura.

Le mosse successive del regime furono suggerite dalla necessità di controllare gli intellettuali, di eliminare il dissenso e di ottenere l’adesione dell’intellighenzia favorevole al regime, la quale nel congresso degli intellettuali fascisti, svoltosi a Bologna nel 1925, sostenne che in Italia nessuna cultura potesse esistere fuori del fascismo. In seguito al contro manifesto crociano in difesa della dottrina liberale e che riteneva “ il fascismo un incoerente e bizzarro miscuglio di aborrimenti della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse”(15), Mussolini prese atto della necessità di porre ad un attento controllo la cultura nazionale attraverso la creazione dell’Istituto nazionale fascista di cultura, sotto la presidenza di Giovanni Gentile. L’istituzione basata sulla filosofia gentiliana e mirante alla formazione di un’organica coscienza nazionale e alla creazione del nuovo italiano fu il primo programma sistematico di propaganda di massa avviato dal governo fascista. Le attività dell’istituto consistevano in conferenze, convegni, concerti, visite a musei, corsi di lingue, programmi didattici e attività di partito.

Successivamente fu creata la Reale Accademia d’Italia, l’istituzione culturale più famosa del fascismo, verso la quale Mussolini diede istruzioni alle comunicazioni di massa di avere il massimo rispetto e deferenza. In realtà questa seconda istituzione culturale servì ad imporre l’autorità fascista sull’alta cultura, difatti successivamente l’Accademia concentrò le sue energie quasi esclusivamente alla propaganda culturale e politica.

Contemporaneamente alle creazioni dell’Istituto e dell’Accademia, cominciò la fascistizzazione degli enti culturali pre fascisti, la Scala di Milano e l’Accademia di Santa Cecilia, la Dante Alighieri, la Lega Morale Italiana, l’Istituto per la storia del Risorgimento ed altre istituzioni culturali minori, furono poste sotto il controllo dello Stato e trasformate in strumenti della propaganda fascista.
nel campo delle comunicazioni di massa, il governo istituì verso la metà del 1924 l’Unione Radiofonica Italiana e l’Unione Cinematografica; attraverso il Consiglio Nazionale delle Ricerche si effettuò un accurato controllo della ricerca scientifica e tecnologica italiana, verso gli anni trenta tale organo ebbe un ruolo importante nello sviluppo tecnologico della radio.

Il passo successivo per un controllo minuzioso della vita culturale fu l’organizzazione Sindacale degli intellettuali, raccolti in una confederazione nazionale dei sindacati fascisti dei professionisti e degli artisti e la Confederazione dello Spettacolo, basati sulla teoria sindacale che , gli intellettuali, andavano considerati come dipendenti dello Stato in quanto lo stato dava loro il lavoro, per cui lo scopo dei sindacati non fu quello di salvaguardare gli interessi delle categorie ma quello di guidare le loro attività professionali. In concreto i sindacati non avevano nessuna autonomia, ma erano strumenti nelle mani del regime e chiunque volesse esercitare una professione doveva obbligatoriamente iscriversi all’albo del sindacato, con requisiti specifici quali la tessera fascista e la prova di una condotta non contraria all’interesse nazionale; era cioé un metodo per eliminare gli elementi antifascisti da qualsiasi ambito della vita culturale. Il regime ricattò con l’arma del bisogno economico e del diritto al lavoro una classe intellettuale rendendola dipendente dello Stato, la quale dovette adattarsi alle esigenze culturali del fascismo.

Contemporaneamente l’azione di condizionamento sociale e di consolidamento fascista proseguì attraverso una serie di programmi miranti al controllo dei gruppi giovanili al fine di educare la gioventù italiana agli ideali e alle norme fasciste.

Il controllo dei gruppi giovanili fu assunto da un giovane dirigente del partito con l’Opera Nazionale Balilla, Gruppi Universitari Fascisti, e i Fasci Giovanili di Combattimento la cui funzione fu quella di ottenere un’educazione morale, spirituale e guerriera. L’iniziativa più marcatamente fascista di nazionalizzazione della gioventù fu la militarizzazione e successivamente fu introdotto nei fasci giovanili l’obbligo delle istruzioni premilitari, con il risultato che i plotoni dei Giovani fascisti assomigliavano più o meno alle bande dei defunti squadristi. Lo stesso Mussolini fu cauto su questo tipo di addestramento e i giovani se pur accettavano il servizio di leva, non accettavano invece le ore settimanali di addestramento premilitare.

Se però il regime fascista non riuscì completamente nell’intento di rendere la gioventù italiana più militarizzata, riuscì ad indirizzarne buona parte allo sport, attraverso il patrocinio di attività sportive, basato sull'idea che produrre campioni sarebbe stato essenziale per il prestigio della nazione, per cui il fascismo sfrutto lo sport a fini totalitari e non patriottico, considerandolo come un mezzo efficiente per legare i giovani agli ordinamenti e al costume, e fornire sollievo e distrazione ai lavoratori. La maggior parte dei fascisti considerava l’atletica non solo come un mezzo di sviluppo fisico e morale della gioventù, ma soprattutto come uno stile di vita consono allo spirito militaristico fascista.

In riferimento al problema del consenso, necessario introdurre una categoria molto più confacente ai metodi del fascismo: coercizione, intesa nel senso di estrinsecazione dell’apparato repressivo dello Stato e del regime, dei mezzi di comunicazione di massa, della repressione culturale del dissenso. Trovandosi in una condizione di monopolio politico caratterizzato da un regime a partito unico, necessariamente si deve considerare la coercizione come l'elemento decisivo per potere esercitare un dominio su masse altrimenti indifferenti o addirittura ostili.

La prima fase della conquista del potere politico costituzionale (1919-1930), difatti si basò sulla distruzione dello Stato liberale e delle sue più importanti istituzioni, con la soppressione degli strumenti e degli istituti di formazione dell’opinione pubblica ___ partiti, sindacati, stampa, associazioni ___ , sostituiti da un sistema di potere che ha il suo centro nell’apparato repressivo e burocratico dello Stato, riorganizzato a difesa del regime. A completamento vi é la macchina della propaganda, del proselitismo, delle organizzazioni tese a seguire i cittadini per tutta la loro vita.






Note


(1) Nicola Tranfaglia, “Labirinto Italiano. Il fascismo, l’antifascismo, gli storici”, ed. La Nuova Italia, Firenze, 1989, pag. 98

(2) Simona Colarizi,“ L’opinione degli italiani sotto il regime.1929-43 ”, ed. Laterza, Roma-Bari, 1991, pag. 3.

“Tra i sistemi di formazione e attivazione del consenso messi in atto dal regime a livello di massa nella nuova prospettiva in cui all’inizio degli anni trenta si andava ormai collocando il fascismo mussoliniano,oltre a quelli più propriamente specifici come la scuola, le organizzazioni di massa, i sindacati, il partito, particolarmente importanti, sul terreno della propaganda, furono attuati attraverso la stampa e la radio: nel disegno di fascistizzazione della società italiana la politica dell’educazione nazionale e della cultura di massa avevano cominciato ad assumere un ruolo rilevante.
Franco Monteleone,”La radio italiana nel periodo fascista”,Marsilio, Venezia, 1976.

(3) “ Due forze allo stato nascente - due “giovinezze”, potremmo dire - si manifestano nell’Italia degli anni ‘20; e, incontrandosi in quel loro stadio iniziale, si giovano e si nuocciono vicendevolmente: sono il fascista e la radio.” Mario Isnenghi , “Una radio in ogni villaggio”, in AA.VV. “ La Radio, storia di sessant’anni. 1924/ 1984”, ed. ERI, Torino, 1984, pag 71.

(4)Ph.V. Cannistraro, “La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media”, ed. Laterza, Roma-Bari, 1975, pag. 225.
“ Mussolini, che all’inizio non aveva dimostrato molto interesse alla radio, s’era reso conto col tempo, anche per la vasta risonanza che alcune trasmissioni radiofoniche avevano suscitato in altri Paesi, dell’importanza che il nuovo mezzo di comunicazione avrebbe potuto rivestire per l’azione propagandistica del regime”. Valerio Castronovo , “ Il modello industriale”, in AA.VV. “La radio, storia di sessant’anni 1924/ 1984”, ed. ERI, Torino, 1984, pag 76.

(5)“La radio vedeva la luce nel pieno del processo di radicalizzazione autoritaria del nuovo potere, quando la classe dirigente fascista si poneva in termini drammatici il problema del controllo dell’opinione pubblica per superare la crisi di credibilità provocata dal delitto Matteotti.” Antonio Papa,“ Storia politica della radio in Italia”, ed. Guida, Napoli, 1978, Vol. I, pag. 22

(6) Edward Tannenbaum, “L’esperienza fascista”,ed. Mursia, Milano, 1974

(7)Valerio Castronovo , “Il modello industriale”, in AA.VV., “La radio, storia di sessant’anni 1924/1984”, ed. ERI, Torino 1984, pag. 76.

(8)Franco Monteleone, “La radio italiana nel periodo fascista”, ed. Marsilio, Venezia 1976.
L’ascesa del nazionalsocialismo era vista come un concorrente competitivo, dotato di efficienti strumenti per la manipolazione del consenso, tanto che: ” E’ venuto ormai il tempo di centralizzare questi servizi - affermava un promemoria - anche perché sotto la pressione della propaganda nazionalsocialista che dimostra di essere già un’organizazione senza economia e abbastanza abile, noi dobbiamo difendere le nostre posizioni per evitare il crearsi di formidabili equivoci e soprattutto per impedire che le caratteristiche del pensiero e dell’azione Mussoliniane possano essere contrabbandate sotto l’etichetta NAZI”( ACS Ministero della Cultura Popolare, 1933,busta 155, fasc. 10, <<Ufficio Stampa>>; anche in F.Monteleone,op. cit. pag. 88)

(9) E. Ragionieri, “La storia politica e sociale”, in Storia d’Italia, Vol. IV, Dall’Unità a oggi, tomo III, Einaudi, Torino, p. 2243.

(10)Antonio Papa, “Storia politica della radio in Italia”, ed. Guida, Napoli, 2°Vol., 1978

(11)“Ciano inaugurò la prassi di sottopporre a Mussolini le autorizzazioni richieste dalla direzione dell’EIAR in merito a programmi importanti, come per esempio le Cronache del regime, che vennero messe in onda nel 1934”, in F. Monteleone, op. cit. , pag. 89.

(12)Nicola Tranfaglia, op.cit.

(13)Nicola Tranfaglia, op.cit. pag. 55

(14)Victoria De Grazia, “Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del Dopolavoro”, Bari, Laterza, 1981, pag.9

(15)Ph.V. Cannistraro, “La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media”, Laterza, Roma-Bari, 1975, pag. 21.


fonte: swli84041av.blogspot.it